Poesia
Come per tutti i grandi personaggi che hanno contribuito al progresso dell'umanità, non sono mancati celebri poeti che hanno scritto le loro odi a Lenin.
Poesia di Nazim Hikmet
La morte di Lenin, 1924
Notizia
Andate!
Come carri armati, che sul loro cammino
spazzano anche una montagna,
andate!
Si senta la benzina, il ferro, il carbone,
per chilometri intorno!
Andate!
Nelle tute blu di operai,
andate!
Risuoni nelle voci eccitate
la nera sirena delle fabbriche,
andate!
Come la Terza Internazionale,
duri, uniti, compatti,
andate!
Né la tristezza né il dolore
vi facciano inerti le braccia.
Serrate più forte le file!
È MORTO LENIN
Risposta
Menzogna!
Menzogna!
Menzogna!
Mai morirà il capo
di masse, la cui quantità
nella fucina del lavoro
si è fatta qualità.
Non morirà!
Non morirà mai!
Non morirà l'uomo,
che prima di tutti ha passato
lottando
le brusche svolte della storia!
Non morirà l'uomo,
che prima di tutti
durante la burrasca
ha scorto il faro!
È mai possibile che chiuda gli occhi
per i secoli dei secoli
il capo
degli operai,
il capo
dei bolscevichi?
Menzogna!
Menzogna!
Menzogna!
Giovanotto, sta' zitto, bugiardo!
mai possibile che più non risuonino
le parole di Ilic?
Seconda risposta
Leggete!
Leggete a voce alta e netta!
Leggete, amici, a piena voce!
Leggete in modo che l'inferriata
tremi e si spezzi!
Leggete le righe di Lenin!...
È morto il grande maestro!
È MORTO! ..
Ma è vivo il leninismo!
Oggi
ogni operaio,
lottando e costruendo il nuovo mondo,
domani
ogni bimbo
nato nella società senza classi,
continuerà la vita di Lenin,
troverà nelle proprie fibre
la coscienza di Ilic.
È morto il grande maestro!
È morto!
Ma non ci ha lasciati
con le braccia cascanti.
È morto, dopo averci svelato i segreti
del mastro-creatore.
E noi porteremo a compimento
il suo disegno geniale!
Comunista! Voglio dirti due parole, 1956
Comunista!
Voglio dirti due parole:
che tu sia segretario del Comitato centrale
o un semplice iscritto,
che tu sia al potere o incatenato in un carcere,
è necessario che Lenin, come vivo,
possa entrare nel tuo lavoro, nella tua famiglia ,
entrare nella tua vita,
come se fosse la sua.
Con Lenin
Immerso nella vita
come ci s'immerge l'estate nella luce del giorno
perché sono nato
perché vivo
trovare la risposta
essere giovane come i giorni che vengono
essere giovane con i giorni che vengono
essere giovane
una terra verde
una bandiera rossa
una colomba bianca
essere con Lenin della stessa canzone
dello stesso fiume
della stessa trincea
dello stesso cantiere.
La morte di Lenin, 1924
Notizia
Andate!
Come carri armati, che sul loro cammino
spazzano anche una montagna,
andate!
Si senta la benzina, il ferro, il carbone,
per chilometri intorno!
Andate!
Nelle tute blu di operai,
andate!
Risuoni nelle voci eccitate
la nera sirena delle fabbriche,
andate!
Come la Terza Internazionale,
duri, uniti, compatti,
andate!
Né la tristezza né il dolore
vi facciano inerti le braccia.
Serrate più forte le file!
È MORTO LENIN
Risposta
Menzogna!
Menzogna!
Menzogna!
Mai morirà il capo
di masse, la cui quantità
nella fucina del lavoro
si è fatta qualità.
Non morirà!
Non morirà mai!
Non morirà l'uomo,
che prima di tutti ha passato
lottando
le brusche svolte della storia!
Non morirà l'uomo,
che prima di tutti
durante la burrasca
ha scorto il faro!
È mai possibile che chiuda gli occhi
per i secoli dei secoli
il capo
degli operai,
il capo
dei bolscevichi?
Menzogna!
Menzogna!
Menzogna!
Giovanotto, sta' zitto, bugiardo!
mai possibile che più non risuonino
le parole di Ilic?
Seconda risposta
Leggete!
Leggete a voce alta e netta!
Leggete, amici, a piena voce!
Leggete in modo che l'inferriata
tremi e si spezzi!
Leggete le righe di Lenin!...
È morto il grande maestro!
È MORTO! ..
Ma è vivo il leninismo!
Oggi
ogni operaio,
lottando e costruendo il nuovo mondo,
domani
ogni bimbo
nato nella società senza classi,
continuerà la vita di Lenin,
troverà nelle proprie fibre
la coscienza di Ilic.
È morto il grande maestro!
È morto!
Ma non ci ha lasciati
con le braccia cascanti.
È morto, dopo averci svelato i segreti
del mastro-creatore.
E noi porteremo a compimento
il suo disegno geniale!
Comunista! Voglio dirti due parole, 1956
Comunista!
Voglio dirti due parole:
che tu sia segretario del Comitato centrale
o un semplice iscritto,
che tu sia al potere o incatenato in un carcere,
è necessario che Lenin, come vivo,
possa entrare nel tuo lavoro, nella tua famiglia ,
entrare nella tua vita,
come se fosse la sua.
Con Lenin
Immerso nella vita
come ci s'immerge l'estate nella luce del giorno
perché sono nato
perché vivo
trovare la risposta
essere giovane come i giorni che vengono
essere giovane con i giorni che vengono
essere giovane
una terra verde
una bandiera rossa
una colomba bianca
essere con Lenin della stessa canzone
dello stesso fiume
della stessa trincea
dello stesso cantiere.
Bertold Brecht
Cantata per la morte di Lenin
I.
Quando Lenin fu morto
un soldato della guardia funebre, così raccontano, disse
ai suoi compagni: Non volevo
crederlo. Sono entrato dov’era disteso e
gli ho gridato all’orecchio «Il’ič,
arrivano gli sfruttatori! »Non s’è mosso. Ora so
che è morto.
2.
Se un uomo buono se ne vuole andare
con che cosa lo si può trattenere?
Ditegli a che cosa egli è necessario.
Questo lo tratterrà.
3.
Che cosa poteva trattenere Lenin?
4.
Il soldato pensava:
se sente che gli sfruttatori arrivano
può essere malato eppure si alzerà.
Forse verrà sulle stampelle,
forse si farà portare ma
si alzerà e verrà
per lottare contro gli sfruttatori.
5.
Perché il soldato sapeva che Lenin
tuttala sua vita aveva lottato
contro gli sfruttatori.
6.
E quando il soldato ebbe dato una mano
a conquistare il Palazzo d’Inverno
e voleva tornarsene a casa perché là
già stavano dividendosi i campi dei latifondisti,
Lenin allora gli aveva detto: Rimani ancora!
Ci sono ancora sfruttatori.
E finché esiste sfruttamento
bisogna fargli la guerra.
E finché esisti tu
bisogna che sia tu a fargli la guerra.
7.
I deboli non combattono. Quelli più forti
lottano forse per un’ora.
Quelli ancora più forti lottano molti anni. Ma
quelli fortissimi lottano per tutta la vita. Costoro
sono indispensabili.
8
(lode del rivoluzionario )
quando l’oppressione cresce
si scoraggiano molti
ma il suo coraggio cresce.
Organizza la sua lotta
per il soldo del salario, per l’acqua del tè
e per il potere nello Stato.
Chiede alla proprietà:
di dove vieni?
Chiede alle opinioni:
a chi servite?
Dove si è taciuto sempre
egli parlerà.
Dove regna oppressione e si discorre di destino
egli farà i nomi.
Dove egli siede a tavola
la scontentezza siede a tavola.
Il mangiare diventa cattivo
e si capisce che la stanza è stretta.
Dove gli danno la caccia, là
va la sommossa e là dove scacciato
resta l’agitazione
9.
Al tempo che Lenin morì e scomparve
la battaglia era vinta ma il paese era distrutto.
Le masse si erano messe in cammino ma
la strada era nel buio.
I soldati sedevano sul ciglio della strada e piangevano
e gli operai lasciavano le macchine
e agitavano i pugni.
10.
Quando se n’andò era come
se l’albero avesse detto alle foglie:
Io vado.
11.
Sono passati da allora quindici anni.
Un sesto della terra
è libero libero dalla sfruttamento.
Al grido di: «arrivano gli sfruttatori! »
tornano sempre a levarsi le masse
pronte al combattimento.
12.
Lenin è nello scrigno
del grande cuore della classe operaia.
Era il nostro maestro
ha combattuto con noi.
È stretto nello scrigno
del grande cuore della classe operaia.
La scritta invincibile, 1934
Al tempo della guerra mondiale
in una cella del carcere italiano di San Carlo
pieno di soldati arrestati, di ubriachi e di ladri,
un soldato socialista incise sul muro col lapis copiativo:
viva Lenin!
Su, in alto, nella cella semibuia, appena visibile, ma
scritto in maiuscole enormi.
Quando i secondini videro, mandarono un imbianchino con un secchio di calce
e quello, con un lungo pennello, imbiancò la scritta minacciosa.
Ma siccome, con la sua calce, aveva seguito soltanto i caratteri
ora c'è scritto nella cella, in bianco:
viva Lenin!
Soltanto un secondo imbianchino coprì il tutto con più largo pennello
sì che per lunghe ore non si vide più nulla. Ma al mattino,
quando la calce fu asciutta, ricomparve la scritta:
viva Lenin!
Allora i secondini mandarono contro la scritta un muratore armato di coltello.
E quello raschiò una lettera dopo l'altra, per un'ora buona.
E quand'ebbe finito, c'era nella cella, ormai senza colore
ma incisa a fondo nel muro, la scritta invincibile:
viva Lenin!
E ora levate il muro! Disse il soldato.
Cantata per la morte di Lenin
I.
Quando Lenin fu morto
un soldato della guardia funebre, così raccontano, disse
ai suoi compagni: Non volevo
crederlo. Sono entrato dov’era disteso e
gli ho gridato all’orecchio «Il’ič,
arrivano gli sfruttatori! »Non s’è mosso. Ora so
che è morto.
2.
Se un uomo buono se ne vuole andare
con che cosa lo si può trattenere?
Ditegli a che cosa egli è necessario.
Questo lo tratterrà.
3.
Che cosa poteva trattenere Lenin?
4.
Il soldato pensava:
se sente che gli sfruttatori arrivano
può essere malato eppure si alzerà.
Forse verrà sulle stampelle,
forse si farà portare ma
si alzerà e verrà
per lottare contro gli sfruttatori.
5.
Perché il soldato sapeva che Lenin
tuttala sua vita aveva lottato
contro gli sfruttatori.
6.
E quando il soldato ebbe dato una mano
a conquistare il Palazzo d’Inverno
e voleva tornarsene a casa perché là
già stavano dividendosi i campi dei latifondisti,
Lenin allora gli aveva detto: Rimani ancora!
Ci sono ancora sfruttatori.
E finché esiste sfruttamento
bisogna fargli la guerra.
E finché esisti tu
bisogna che sia tu a fargli la guerra.
7.
I deboli non combattono. Quelli più forti
lottano forse per un’ora.
Quelli ancora più forti lottano molti anni. Ma
quelli fortissimi lottano per tutta la vita. Costoro
sono indispensabili.
8
(lode del rivoluzionario )
quando l’oppressione cresce
si scoraggiano molti
ma il suo coraggio cresce.
Organizza la sua lotta
per il soldo del salario, per l’acqua del tè
e per il potere nello Stato.
Chiede alla proprietà:
di dove vieni?
Chiede alle opinioni:
a chi servite?
Dove si è taciuto sempre
egli parlerà.
Dove regna oppressione e si discorre di destino
egli farà i nomi.
Dove egli siede a tavola
la scontentezza siede a tavola.
Il mangiare diventa cattivo
e si capisce che la stanza è stretta.
Dove gli danno la caccia, là
va la sommossa e là dove scacciato
resta l’agitazione
9.
Al tempo che Lenin morì e scomparve
la battaglia era vinta ma il paese era distrutto.
Le masse si erano messe in cammino ma
la strada era nel buio.
I soldati sedevano sul ciglio della strada e piangevano
e gli operai lasciavano le macchine
e agitavano i pugni.
10.
Quando se n’andò era come
se l’albero avesse detto alle foglie:
Io vado.
11.
Sono passati da allora quindici anni.
Un sesto della terra
è libero libero dalla sfruttamento.
Al grido di: «arrivano gli sfruttatori! »
tornano sempre a levarsi le masse
pronte al combattimento.
12.
Lenin è nello scrigno
del grande cuore della classe operaia.
Era il nostro maestro
ha combattuto con noi.
È stretto nello scrigno
del grande cuore della classe operaia.
La scritta invincibile, 1934
Al tempo della guerra mondiale
in una cella del carcere italiano di San Carlo
pieno di soldati arrestati, di ubriachi e di ladri,
un soldato socialista incise sul muro col lapis copiativo:
viva Lenin!
Su, in alto, nella cella semibuia, appena visibile, ma
scritto in maiuscole enormi.
Quando i secondini videro, mandarono un imbianchino con un secchio di calce
e quello, con un lungo pennello, imbiancò la scritta minacciosa.
Ma siccome, con la sua calce, aveva seguito soltanto i caratteri
ora c'è scritto nella cella, in bianco:
viva Lenin!
Soltanto un secondo imbianchino coprì il tutto con più largo pennello
sì che per lunghe ore non si vide più nulla. Ma al mattino,
quando la calce fu asciutta, ricomparve la scritta:
viva Lenin!
Allora i secondini mandarono contro la scritta un muratore armato di coltello.
E quello raschiò una lettera dopo l'altra, per un'ora buona.
E quand'ebbe finito, c'era nella cella, ormai senza colore
ma incisa a fondo nel muro, la scritta invincibile:
viva Lenin!
E ora levate il muro! Disse il soldato.
Pablo Neruda
Ode a Lenin
La rivoluzione ha 40 anni.
Ha l’età di una giovane matura.
Ha l’età delle madri belle.
Quando nacque,
nel mondo
la notizia si seppe
in modo differente.
– Che cosa è questo? – si domandavano i vescovi –
se ha spostato la terra
noi potremo continuare a vendere cielo.
I governi dell’Europa,
dell’America oltraggiata,
i dittatori torbidi,
leggevano in silenzio
le allarmanti comunicazioni.
Per soffici, per profonde
scale
arrivava un telegramma,
come arriva la febbre
nel termometro:
non c’erano dubbi,
il popolo aveva vinto,
si trasformava il mondo.
I
Lenin, per cantarti
devo dire addio alle parole;
devo scrivere con alberi, con ruote,
con aratri, con cereali.
Sei concreto come
i fatti e la terra.
Non esistette mai
un uomo più terrestre
di V. Ulianov.
Ci sono altri uomini alti
che come le chiese si abituano
a conversare con le nubi,
sono alti uomini solitari.
Lenin sostenne un patto con la terra.
Vide più lontano che nessuno.
Gli uomini,
i fiumi, le colline,
le steppe,
erano un libro aperto
e li leggeva,
leggeva più lontano di tutti,
più chiaramente che nessuno.
Egli guardava profondo
nel paese, nell’uomo,
guardava l’uomo come in un pozzo,
lo esaminava come
se fosse un minerale sconosciuto
che avesse scoperto.
Bisognava estrarre le acque dal pozzo,
bisognava elevare la luce dinamica,
il tesoro segreto
dei paesi,
perché tutto geminasse e nascesse,
per essere degni del tempo e della terra.
II
Attenti a confonderlo con un freddo ingegnere.
Attenti a confonderlo con un mistico ardente.
La sua intelligenza arse senza essere mai ceneri,
la morte non ha gelato ancora il suo cuore di fuoco.
III
Mi piace vedere Lenin che pesca nella trasparenza
del lago Razliv, e quelle acque sono
come un piccolo specchio perduto nell’erba
del vasto Nord freddo e argentato:
solitudini quelle, scontrose solitudini,
piante martirizzate dalla notte e dalla neve,
l’artico sibilo del vento nella sua capanna.
Mi piace vederlo lì solitario ascoltare
l’acquazzone, il tremulo volo
delle tortore,
l’intensa pulsazione del bosco puro.
Lenin attento al bosco ed alla vita,
ascolta i passi del vento e della storia
nella solennità della natura.
IV
Furono alcuni uomini soltanto studio,
libro profondo, appassionata scienza,
ed altri uomini possedettero
come virtù dell’anima il movimento.
Lenin possedette due ali:
il movimento e la saggezza.
Creò nel pensiero,
decifrò gli enigmi,
ruppe le maschere
della verità e dell’uomo
ed era da tutte le parti,
era al medesimo tempo da tutte le parti.
V
Così, Lenin le tue mani lavorarono
e la tua ragione non conobbe il riposo
finché da tutto l’orizzonte
si scorse una nuova forma:
era una statua insanguinata,
era una vittoria con stracci,
era una bambina bella come la luce,
piena di cicatrici, macchiata dal fumo.
Da remote terre gli uomini la guardarono:
era lei, non c’era dubbio,
era la Rivoluzione.
Il vecchio cuore del mondo pulsò in un altro modo.
VI
Lenin, uomo terrestre,
la tua figlia è arrivata al cielo.
La tua mano
muove adesso
chiare costellazioni.
La stessa mano
che firmò decreti
sul pane e sulla terra
per il popolo,
la stessa mano
si trasformò in pianeta:
l’uomo che tu facesti mi costruì una stella.
VII
Tutto è cambiato, ma
fu duro il tempo
e aspri i giorni.
Durante quaranta anni ulularono
i lupi vicini alle frontiere:
Volevano abbattere la statua viva,
volevano ardere i suoi occhi verdi,
per fame e fuoco
e gas e morte
volevano che morisse
tua figlia, Lenin,
la vittoria,
la estesa, ferma, dolce, forte e alta
Unione Sovietica.
Non poterono.
Mancò il pane, il carbone,
mancò la vita,
dal cielo cadde pioggia, neve, sangue,
sopra le povere case incendiate,
ma tra il fumo
e la luce del fuoco
i popoli più remoti videro la statua viva
difendersi e crescere crescere crescere
finché il suo valoroso cuore
si trasformò in metallo invulnerabile.
VIII
Lenin, grazie ti affidiamo i lontani.
Da allora, dalle tue decisioni,
dai tuoi passi rapidi e dai tuoi rapidi occhi
non sono soli i popoli
nella lotta per l’allegria.
L’immensa patria dura,
quella che sostenne l’assedio,
la guerra, la minaccia,
è torre irremovibile.
E non possono ucciderla.
E così vivono gli uomini
un’altra vita,
e mangiano altro pane
con speranza,
perché nel centro della terra esiste
la figlia di Lenin, chiara e determinante.
Ode a Lenin
La rivoluzione ha 40 anni.
Ha l’età di una giovane matura.
Ha l’età delle madri belle.
Quando nacque,
nel mondo
la notizia si seppe
in modo differente.
– Che cosa è questo? – si domandavano i vescovi –
se ha spostato la terra
noi potremo continuare a vendere cielo.
I governi dell’Europa,
dell’America oltraggiata,
i dittatori torbidi,
leggevano in silenzio
le allarmanti comunicazioni.
Per soffici, per profonde
scale
arrivava un telegramma,
come arriva la febbre
nel termometro:
non c’erano dubbi,
il popolo aveva vinto,
si trasformava il mondo.
I
Lenin, per cantarti
devo dire addio alle parole;
devo scrivere con alberi, con ruote,
con aratri, con cereali.
Sei concreto come
i fatti e la terra.
Non esistette mai
un uomo più terrestre
di V. Ulianov.
Ci sono altri uomini alti
che come le chiese si abituano
a conversare con le nubi,
sono alti uomini solitari.
Lenin sostenne un patto con la terra.
Vide più lontano che nessuno.
Gli uomini,
i fiumi, le colline,
le steppe,
erano un libro aperto
e li leggeva,
leggeva più lontano di tutti,
più chiaramente che nessuno.
Egli guardava profondo
nel paese, nell’uomo,
guardava l’uomo come in un pozzo,
lo esaminava come
se fosse un minerale sconosciuto
che avesse scoperto.
Bisognava estrarre le acque dal pozzo,
bisognava elevare la luce dinamica,
il tesoro segreto
dei paesi,
perché tutto geminasse e nascesse,
per essere degni del tempo e della terra.
II
Attenti a confonderlo con un freddo ingegnere.
Attenti a confonderlo con un mistico ardente.
La sua intelligenza arse senza essere mai ceneri,
la morte non ha gelato ancora il suo cuore di fuoco.
III
Mi piace vedere Lenin che pesca nella trasparenza
del lago Razliv, e quelle acque sono
come un piccolo specchio perduto nell’erba
del vasto Nord freddo e argentato:
solitudini quelle, scontrose solitudini,
piante martirizzate dalla notte e dalla neve,
l’artico sibilo del vento nella sua capanna.
Mi piace vederlo lì solitario ascoltare
l’acquazzone, il tremulo volo
delle tortore,
l’intensa pulsazione del bosco puro.
Lenin attento al bosco ed alla vita,
ascolta i passi del vento e della storia
nella solennità della natura.
IV
Furono alcuni uomini soltanto studio,
libro profondo, appassionata scienza,
ed altri uomini possedettero
come virtù dell’anima il movimento.
Lenin possedette due ali:
il movimento e la saggezza.
Creò nel pensiero,
decifrò gli enigmi,
ruppe le maschere
della verità e dell’uomo
ed era da tutte le parti,
era al medesimo tempo da tutte le parti.
V
Così, Lenin le tue mani lavorarono
e la tua ragione non conobbe il riposo
finché da tutto l’orizzonte
si scorse una nuova forma:
era una statua insanguinata,
era una vittoria con stracci,
era una bambina bella come la luce,
piena di cicatrici, macchiata dal fumo.
Da remote terre gli uomini la guardarono:
era lei, non c’era dubbio,
era la Rivoluzione.
Il vecchio cuore del mondo pulsò in un altro modo.
VI
Lenin, uomo terrestre,
la tua figlia è arrivata al cielo.
La tua mano
muove adesso
chiare costellazioni.
La stessa mano
che firmò decreti
sul pane e sulla terra
per il popolo,
la stessa mano
si trasformò in pianeta:
l’uomo che tu facesti mi costruì una stella.
VII
Tutto è cambiato, ma
fu duro il tempo
e aspri i giorni.
Durante quaranta anni ulularono
i lupi vicini alle frontiere:
Volevano abbattere la statua viva,
volevano ardere i suoi occhi verdi,
per fame e fuoco
e gas e morte
volevano che morisse
tua figlia, Lenin,
la vittoria,
la estesa, ferma, dolce, forte e alta
Unione Sovietica.
Non poterono.
Mancò il pane, il carbone,
mancò la vita,
dal cielo cadde pioggia, neve, sangue,
sopra le povere case incendiate,
ma tra il fumo
e la luce del fuoco
i popoli più remoti videro la statua viva
difendersi e crescere crescere crescere
finché il suo valoroso cuore
si trasformò in metallo invulnerabile.
VIII
Lenin, grazie ti affidiamo i lontani.
Da allora, dalle tue decisioni,
dai tuoi passi rapidi e dai tuoi rapidi occhi
non sono soli i popoli
nella lotta per l’allegria.
L’immensa patria dura,
quella che sostenne l’assedio,
la guerra, la minaccia,
è torre irremovibile.
E non possono ucciderla.
E così vivono gli uomini
un’altra vita,
e mangiano altro pane
con speranza,
perché nel centro della terra esiste
la figlia di Lenin, chiara e determinante.
adimir Majakovskij
Vladimir Il'itch Lenin.
1.
Tempo, incomincio qui la storia di Lenin.
Non perché la tristezza sia spenta,
ma perché quell'angoscia
s'è fatta chiaro cosciente dolore.
O tempo, scatena ancora
le parole d'ordine leniniste.
Dobbiamo forse affondare
in uno stagno di lacrime?
Lenin, anche oggi,
è più vivo di tutti i viventi,
è la nostra scienza, arma e vigore.
Pur vivendo sulla terra,
gli uomini sono barche.
Non puoi vivere la tua vita
senza che croste d'inquinate conchiglie
s'attacchino ai tuoi fianchi.
Ma più tardi,
uscito fuori dalla tempesta,
ti siedi al sole
e raschi l'algosa barba verdastra,
la glutinosa pasta delle meduse...
Io, invece, sono stato raschiato da Lenin
per navigare in avanti
sui flutti
della rivoluzione.
Come di un bambino temi
la bugia, così
mi sgomentano le migliaia di righe.
Ho paura che una corona sulla sua testa
possa nascondere la sua fronte
così umana e geniale,
così vera. Sì, io temo
che processioni e mausolei,
con la regola fissa dell'ammirazione,
offuschino d'aciduli incensi
la semplicità di Lenin; io temo,
come si teme per la pupilla degli occhi,
ch'egli venga falsato
dalle soavi bellezze dell'ideale.
Dentro il cuore mi parla
ed io scrivo per espresso mandato del dovere.
In tutta Mosca, la terra stretta dal gelo
è scossa dal fragore.
Gli uomini intirizziti dal freddo della notte
si riscaldano ai fuochi
dei falò.
Perché tanto onore per lui?
Di dove viene quest'uomo?
Districo dalla memoria
catene di sillabe,
ma la sillaba giusta
non trovo.
Com'è povera, ahimé, nel nostro mondo,
l'officina delle parole!
Dove trovare quello che occorre?
Sette giorni, dodici ore: non si vive più a lungo:
la morte non sa perdonare.
E brevi sono le ore e piccola la misura
del calendario,
ma noi parliamo di «epoche»e di «ére».
La notte dormiamo
e di giorno andiamo al lavoro.
Ci piace pestare la nostra acqua nel nostro mortaio.
E se un uomo,
da solo e per tutti,
può dirigere il corso degli eventi,
noi allora lo chiamiamo «Profeta»,
noi allora lo chiamiamo «Genio».
Noi siamo gente senza ambizioni,
se non ci chiamano a nome
non ci muoviamo, piacciamo a nostra moglie
e di ciò ci sentiamo soddisfatti.
Ma se un uomo fonde l'anima al corpo
e non come noi conosce corruzione
noi allora diciamo «figura imperiale»,
ripetiamo stupiti «è un dono di Dio!»
Questi sono i discorsi,
né stupidi né intelligenti,
i vani discorsi le cui parole
come fumo o come larve,
restano inafferrabili, distanti
dalla tua vita.
Che farsene di queste parole?
Come fare
a misurare Lenin con simile metro?
Abbiamo visto coi nostri occhi:
quest'«éra» ha varcato la porta
senza urtare lo stipite con la testa.
Ma è possibile che di Lenin
si debba dire ancora «Capo per grazia divina?»
Ah, no! Se fosse stato divino o imperiale,
la mia ira sarebbe esplosa.
Mi sarei messo contro i cortei,
avrei sbarrato la strada alle folle,
avrei fermato l'adorazione.
Anche investito e calpestato,
avrei scagliato bestemmie contro il cielo.
Ma il passo di Dzerginskij
può restare tranquillo
presso la bara
e tranquilla la Ceka. Da milioni di occhi,
dai miei occhi,
sono scese due lacrime di gelo
ed ora sono ferme sulle guance.
Non sono novità questi onori ufficiali,
eppure, oggi,
il cuore è colpito
da un'offesa vera.
Noi seppelliamo quest'oggi
l'uomo più terrestre
che sulla terra abbia camminato,
un uomo terrestre non come quelli
che vedono soltanto il loro passo,
ma un uomo terrestre
che ha visto il segreto del mondo
e ciò che il tempo nasconde.
Egli è simile a noi,
in tutto uguale,
solo, all'angolo degli occhi
più che a noi
forse, gli corrugano la pelle i suoi pensieri
e le labbra ha più ironiche e più dure.
Ma non è la durezza del tiranno
che ti travolge sul carro del trionfo
con uno strappo di redini.
Lenin si ergeva contro il nemico
più duro del ferro,
ma col compagno era dolce
come una materna carezza.
Le nostre debolezze erano le sue debolezze,
come noi superava le stesse malattie,
come noi che diciamo «Il bigliardo mi esercita l'occhio»,
egli apprezzava il giuoco degli scacchi,
il giuoco degli strateghi.
E dagli scacchi,
volgendosi contro il nemico di classe,
mutando in uomini le pedine,
egli fondò l'umanissima dittatura operaia
sopra la torre carceraria del capitale.
A lui furono care le stesse cose che a noi sono care.
Ma perché, ditemi perché,
perché mai, io poeta, così lontano da lui,
ebbro di gioia darei la mia vita
per un suo respiro? Sono forse migliore degli altri?
E non io soltanto. Senza nemmeno chiamarvi,
al minimo cenno,
chi di voi dai villaggi e dalle miniere,
non si farebbe avanti?
Come per troppo vino, o troppo dolore,
barcollo e solo per un istinto
mi tengo lontano dalla linea del tram.
Ma chi piangerebbe la mia piccola morte
in questo gorgo di lutto, in questa morte?
Si muovono con le bandiere, senza bandiere,
e così pare, come agli antichi tempi,
che tutta la Russia sia diventata nomade ancora.
La Sala delle Colonne trema sotto i passi.
Il telegrafo è rauco per il lungo
luttuoso ululato.
Scendono lacrime di neve
dalle palpebre, rosse come bandiere.
Ma chi è dunque?
Quali gesta ha compiuto?
Di dove viene quest'uomo
di ogni uomo più umano?
2.
Breve è la vita di Ul'janov
e noi la conosciamo sino al suo palpito estremo,
ma la vita di Lenin non ha fine.
Dobbiamo scriverla e riscriverla ancora.
Le sue prime notizie
risalgono oltre cento e cent'anni.
Ascoltate la ferrea voce
che viene attraverso i secoli,
la voce della prima caldaia
dell'antenato di Bromley e di Goujon.
Sua Altezza il Capitale,
senza corona e diadema,
piegava in schiavitù la forza contadina;
la città derubava e saccheggiava
e impinguava l'obesa pancia
delle sue casseforti.
Ma intanto,
gobba sui torni e macilenta,
nasceva la classe operaia
e già come una minaccia
alzava nel cielo le ciminiere:
«Voi lastricate per noi la strada dell'oro.
Si nasce e si muore, ma un giorno
da noi sorgerà
un uomo di lotta e di castigo,
un uomo di vendetta».
Fumo e nuvole
ingombrano il cielo e si confondono
come soldati di una stessa armata.
Poi due cieli nascono in cielo
per il fumo che occulta le nubi.
Si accumulano le merci,
sono montagne tra i poveri,
e il direttore, diavolo calvo,
tira le somme alla calcolatrice,
e mettendo fuori il cartello «Serrata»,
brontola:«Crisi».
Di dolcezza si nauseano le mosche,
il grano marcisce nei silos,
mentre lungo le vetrine
colme d'alimentari,
stringendo la cintola,
sfilano i disoccupati. Il ventre dei quartieri popolari
protesta e copre coi suoi gemiti
il pianto dei bambini.
«Per avere un lavoro è forse necessario
impugnare il fucile con entrambe le mani?
E mostrano le mani vuote.
O difensore e vendicatore, vieni!
Ehi cammello, scopritore di colonie,
marcia sulla sabbia dei deserti
più ardente del fuoco.
Ehi flotte d'acciaio,
alzate schiume più candide di fogli di carta!
Sulle oasi di palme soavi
s'addensano macchie oscure
e fuori, tra l'oro delle piantagioni,
grida il negro sotto lo staffile:
«O Nilo, mio Nilo,
intrica e districa i miei neri giorni
perché siano infine più neri
del mio sonno nero,
perché infine l'incendio
sia più rosso di questo mio sangue,
perché infine in tutto questo caffè
si cuociano vivi
questi grassi aguzzini bianchi e neri.
Ogni zanna d'avorio
che noi raccogliamo,
piàntala nel loro cuore,
piàntala nella loro carne.
Anche se verrà solo per i nostri nipoti,
non sarà inutile questo mio sangue.
Vieni, oh vieni,
difensore col viso di sole!
Io muoio. Il dio delle Morti mi chiama.
Ma tu, Nilo, mio Nilo,
ricorda questo grido».
3.
In Russia, tra le nevi,
nei deliri della Patagonia,
il tempo ha impiantato i tornî del sudore.
A Ivanov e a Voznesensk
i quartieri sono inquieti
di voci e canzoni:
«Ehi, tu, mia fabbrica con gli occhi gialli,
è tempo che venga
un nuovo Sten'ka Razin.»
I nipoti domanderanno cosa vuol dire «capitalista»,
come adesso i nostri bambini
voglion sapere
cosa significhi la parola «gendarme».
Ecco, io scriverò in una pagina,
per i nostri nipoti,
la genesi del capitalismo.
Nei suoi giovani anni,
un qualsiasi intraprendente ragazzo
era il capitalismo;
primo nella fatica, non aveva timore che il lavoro
gli insudiciasse la camicia.
Il feudale colletto ricamato
gli andava davvero troppo stretto,
si azzuffò non peggio
di come oggi ci si azzuffi.
Nella sua primavera il capitalismo
fiorì di rivoluzioni
e persino intonò la Marsigliese nelle strade.
Creò la macchina e gli uomini
che insieme la fecero andare.
Senza tregue,
moltiplicò nel mondo la gente operaia
e con aquile e corone
si divorò in un boccone
i regni e i principati.
Ma più tardi,
come la biblica vacca,
si accovacciò, come un bue che si lecca:
la lingua fu il parlamento.
Gli pesavano gli anni,
l'acciaio dei suoi muscoli infiacchì
e col passare del tempo,
divenne gonfio e deforme,
simile ai suoi grossi registri
di contabilità.
Innalzò splendenti palagi
e più d'un artista strisciò su quei muri...
Pavimenti stile impero,
soffitti rococò,
pareti Luigi Quattordicesimo, "quatorze"...
E tutto intorno la polizia faccia-di-culo.
È, sorda l'anima ai canti e ai colori,
come le mucche lo sono ai fiori
in mezzo al prato. Etica, estetica
e simile roba
non sono per lui che donne di servizio.
L'inferno e il paradiso gli appartengono,
alle bigotte vende i buchi
che han fatto i chiodi
sulla croce di Nostro Signore
o magari la coda dello Spirito Santo.
Così il capitalismo sopravvive.
Ora per lui lavora lo schiavo.
Sfruttando, mangiando, dormendo,
s'è fatto grasso e animoso.
Ma già si dissecca
e giace traverso sul cammino della storia,
facendo del mondo il suo letto.
Non è possibile evitarlo,
non è possibile girargli a lato.
L'unica via d'uscita
è quella di farlo saltare.
Ah, lo so! Il poeta lirico farà una smorfia
amaramente
e il critico impugnerà la frusta
facendola sibilare:
«Ma dov'è l'anima? Dov'è la poesia?
Questa è solo retorica o giornalismo».
Lo so, «capitalismo» non è una parola elegante,
ha un suono più dolce la parola «usignuolo»,
ma io non mi arrendo per così poco.
Io lancio il mio verso
come una parola d'ordine e di lotta,
una parola d'agitazione.
Certo, un giorno io scriverò di questo e di quello,
ma oggi non è tempo per fiabe d'amore.
Oggi, tutto il vigore del mio canto
lo dono a te, classe all'attacco,
proletariato!
Che suono stridente ha questa parola
per chi non è che inferno il Comunismo,
ma per noi
questa parola è musica profonda
che risveglia i morti dalla lotta.
La paura
invade i piani nobili dei palazzi,
l'urlo delle cantine
si leva su sino ai più alti quartieri.
Irromperemo nell'azzurro spalancato del cielo,
usciremo dalla cava di pietra.
Sarà così: in una misera branda
nascerà il figlio operaio,
la guida dei proletari.
Il globo terrestre non basta.
La sazia carogna del capitale,
con la mano pesante d'anelli,
si protende per agguantare il nemico alla gola.
Ma quale nemico?
Udite! Vanno col fuoco,
alzando stridori e clamori,
urlando: «A morte!
Non c'è posto per due borghesi».
Ogni paese è una tomba, una fossa comune.
Le città sono fabbriche ortopediche.
Ora è finita:
la vittoria sta sul tavolo...
Ma udite,
udite la sotterranea voce nelle tombe,
udite le nacchere delle stampelle.
«Voi ci vedrete ancora nel bagliore della guerra.
Il tempo non perdona questa colpa.
Egli verrà, romperà gli indugi,
dichiarerà
guerra a voi e alla vostra guerra!»
Stagni di lacrime sulla terra,
torbidi stagni di lacrime.
Solitari sognatori
cercarono soluzioni in assurde utopie;
filantropi si ruppero il capo
contro l'aspra durezza della vita;
ma forse che la strada
di milioni e milioni di uomini vivi
può essere il sentiero dei filantropi?
Anche i capitalisti ora sono impotenti:
la macchina s'è inalberata.
Il loro regime, come foglie ingiallite,
solleva il caos delle crisi,
dà un rapido via agli scioperi.
«Nelle tasche di chi andiamo a finire
come una lava d'oro?
A chi dare la colpa? Con chi andare?»
E la classe operaia che ha milioni di teste,
fissa lo sguardo cercando di capire se stessa.
Il tempo ha ingoiato le ore del capitale
più veloce del lampo dei riflettori.
Il tempo ha generato Marx,
il fratello maggiore di Lenin.
Marx! Lo vedi venire avanti
dal fondo di un ritratto canuto.
Ah, come sono lontane dalla sua vita
le nostre fantasie!
La gente vede
murato nel marmo col gesso
un uomo divenuto freddo, ma quando
sulla strada della rivoluzione
mossero gli operai i primi passi,
oh, quale fiammeggiante fuoco
era acceso nel cuore e nella mente di Marx!
Come se lavorasse in ogni officina,
come se ogni lavoro lo facesse con le sue mani,
colse in flagrante
coloro che predano il plus-valore.
E dove gli operai in tremore
non osavano alzare lo sguardo
nemmeno all'ombelico dell'agente di borsa,
Marx, con la lotta di classe,
guidò il colpo
contro il vitello d'oro fattosi bue.
A noi prima sembrava
che solo le onde del caso
ci gettassero incalzando
sugli approdi del Comunismo,
ma Carlo Marx, aprendo le leggi della storia,
mise il proletariato al timone.
I libri di Marx
non sono bozze di stampa,
non sono colonne di aride cifre,
Marx ha messo gli operai sui piedi
ed ha guidato colonne ben più vive dei numeri.
Guidò gli operai dicendo:
«Cadete combattendo.
Si tratta di correggere i calcoli del cervello.
Egli verrà, verrà il grande stratega
a dirigere le battaglie
in campo aperto e non sulla carta».
Io so che macinando le estreme conclusioni
con la mola dei suoi pensieri
e scrivendo con la sua mano
pallida come la cera,
Marx ebbe la visione del Cremlino
e vide la bandiera della Comune
sventolante sulla Piazza Rossa.
I giorni crescevano maturando come i meloni.
Il proletariato non fu più bambino.
Le sue ondate scuotevano le fortezze
vertiginose del capitale.
A distanza di pochi anni
queste minacce echeggiano d'ira
e l'ira repressa sfocia in rivolte
e dal baleno delle rivolte
nascono le rivoluzioni.
I metodi borghesi sono crudeli.
Straziati dai Thiers,
gridano i loro lamenti le ombre dei Comunardi,
oggi ancora gridano sotto i muri di Parigi:
«Ascoltate, compagni! Imparate da noi.
Guai ai solitari! Colpite
uniti in un solo partito, stretti in un unico pugno!
Ci sono di quelli che dicono: "Noi siamo i capi!"
ma non sono che parolai. Dietro le loro parole
sappi distinguere la pelle!
Verrà un capo che tutti gli altri spingerà nel buio,
più semplice del pane,
più diritto dei binari.»
Confusione di classi e di fedi
di ceti e di lingue: sulle ruote dell'oro
si muoveva la terra. Il capitale,
istrice di contraddizioni,
ingigantì smisurato,
si rafforzò di nude baionette.
Lo spettro del comunismo
s'aggirava per l'Europa,
si allontanava, di nuovo
balenava lontano...
Per tutto questo, nella remota Simbirsk,
nacque un bambino come tutti gli altri:
Lenin.
4.
Ho incontrato un operaio analfabeta.
Non sillabava neppure una parola.
Ma aveva sentito la voce di Lenin
ed egli sapeva tutto.
Ho ascoltato
il racconto d'un contadino siberiano:
espropriarono le terre, le difesero con le baionette
e come un paradiso diventò il villaggio.
Essi mai avevano letto Lenin,
né ascoltata la sua parola,
ed erano leninisti.
Ho visto montagne senza erbe né fiori.
Soltanto le nuvole pesavano sulle rocce
e nello spazio di cento verste
c'era un solo montanaro,
ma sopra il petto, sul vestito di stracci,
gli scintillava il simbolo di Lenin.
Oh, non è un ornamento
che le ragazze appuntano per civetteria,
non è un amuleto, è un emblema
il distintivo sul cuore che brucia
pieno d'amore per Il'itch.
Questo prodigio non si spiega coi libri
della subdola teologia slava
e non è un Dio che a lui ordinò: «Sii il mio eletto».
Con passo d'uomo
e braccia d'operaio,
con la sua intelligenza,
egli percorse questo cammino.
5.
Getta uno sguardo dall'alto sopra la Russia:
la vedrai azzurra di fiumi
come striata da colpi di frusta.
Ma più azzurri dell'acqua in primavera
sono i lividi della Russia serva della gleba.
Guarda la Russia dalle sue pianure:
dovunque rivolgi gli occhi
vedi levarsi nel cielo montagne, prigioni e ciminiere.
Ma la schiavitù dei tornî nelle fabbriche
è ben più dura delle prigioni.
Ho visto paesi più ricchi, più belli e più civili,
ma una terra con più dolore
non mi è mai capitato di vedere.
È così: non tutte le percosse
si possono cancellare dalle guance.
Un urlo echeggiava intorno:
«In piedi, per la terra e per la libertà!»
Rivoltosi solitari impugnavano armi,
cercavano bombe. È giusto scagliare ferro e piombo
contro lo zar, ma spesso non si solleva
che la polvere della strada
sotto le ruote del cocchio.
Il fratello di Lenin, il populista Alessandro,
viene arrestato
perché tramava la morte dello Zar:
se uno ne uccidi,
un altro ne giunge, gonfio di rabbia,
che ripete gli orrori del tiranno caduto.
Ul'janov Alessandro fu impiccato
come migliaia di quelli di Slisselburg.
6.
Allora, a diciassette anni, Lenin disse queste parole,
più ferme del giuramento a mano alzata
che pronuncia il soldato:
«Fratello, siam pronti a darti il cambio.
Noi vinceremo, ma seguendo un altro cammino.»
Guardate i monumenti,
osservate la stirpe degli eroi.
Diventerà un nuovo Gogol
e noi lo onoreremo con corone d'alloro?
No, non è questa la strada di Lenin.
Una fatica da manovale egli si buttò sulle spalle.
All'officina, insieme agli operai,
insegna il modo
perché il salario cresca di un soldo,
insegna cosa si deve fare
quando il capo va sulle furie
o come si deve agire
perché il padrone mandi giù, magari acqua bollente.
Ma non è piccolo lo scopo finale;
dopo aver vinto non ti ritrovi
come in mezzo a una stanza ripulita:
il socialismo è lo scopo,
il capitalismo l'ostacolo. Non la scopa, dunque,
ma il fucile!
Lenin parla,
ripete le stesse parole,
trova la via del cuore più sordo,
e il giorno dopo
una mano stringe una mano,
due uomini si sono compresi.
Ieri quattro, oggi quattrocento.
Ci nascondiamo, ma presto usciremo all'aperto
e i quattrocento saranno migliaia.
Solleviamo in rivolta i lavoratori del mondo.
Non siamo più silenziosi come le acque
e piccoli come i fili dell'erba.
L'ira degli operai s'addensa in una nube
che trafigge coi fulmini dei libelli di Lenin,
che tempesta furiosa grandine
di manifesti e proclami.
Lenin incontrò la classe degli umili
che alla sua voce dischiuse gli occhi,
e assorbite le idee, la forza delle masse,
insieme alla classe operaia crebbe il giovane Lenin.
Si trasforma e diventa realtà
il senso del suo giuramento:
«Noi non siamo dei solitari,
ma siamo l'Unione di lotta
per il riscatto della classe operaia».
Il leninismo avanza, si allarga,
si diffonde per bocca dei nuovi compagni.
Sono scritte col sangue
le gesta eroiche dell'illegalità,
sono scritte nel fango e nella polvere
dell'infinita Volodimirka!
Ma adesso siam noi
che facciamo girare il globo terrestre.
E tuttavia, anche seduti nelle poltrone del Cremlino,
a quanti, d'improvviso,
tra i fogli dei decreti,
la vecchia Nertchinsk stride in cuore
al ricordo delle sue catene!
Di nuovo io vi rammento
la libera via degli uccelli e nella strada
il trotto elettrico dei tram...
Ah, chi di voi non morse le inferriate?
Ci fu pure chi si spaccò la fronte
sulla pietra dei muri:
acqua e scopa, i guardiani lavarono la cella.
«Poco tempo hai lottato, ma con onore,
per il bene della tua terra natale»,
in quale esilio piacque a Lenin
la funebre forza di questo canto?
Dicevano che il contadino
sarebbe andato per la sua strada,
costruendosi per sé un socialismo
semplice e ingenuo.
Non è così, perché anche la Russia
si fa irta di ciminiere.
Sulle città cresce una barba di fumo...
Non si tratta di un «Prego, prego,
s'accomodi in Paradiso!»
Attraverso il cadavere della borghesia
s'apre il passo il Comunismo.
Ai cento milioni di contadini,
la classe operaia è guida sicura
e di questa classe Lenin è il capo.
L'agile social-rivoluzionario,
lui pure ghiotto dei forti colli operai,
insieme al liberale,
dipana promesse su promesse.
Ma la critica di Lenin
corrode la vernice delle frasi eleganti
e mette a nudo la loro rapace realtà.
Non bastano più i discorsi
sull'"essenza della libertà,
sul tema degli uomini tutti fratelli",
noi siamo in pieno movimento marxista,
siamo il primo partito bolscevico del mondo.
L'America si percorre in vagone letto.
Se tu vai a Tchuklóma
anche là ti salteranno agli occhi
le due lettere "P. C."
e accanto, tra parentesi, la minuscola "b".
È così: l'osservatorio di Pulkovo indaga su Marte,
frugando nello scrigno dei cieli,
ma ormai, per il mondo,
quella piccola lettera alfabetica
è cento volte più grande, più rossa, più chiara.
7.
Qui da noi le parole più profonde
diventano abitudine,
invecchiano come i vestiti,
ma io voglio costringere una grande parola
a splendere di nuovo, la parola "Partito".
Un uomo solo, in se stesso racchiuso,
a che cosa può essere utile? Chi mai
gli darà ascolto? Forse la moglie,
e non sempre, non in piazza
ad esempio,
forse solo nell'intimità.
Il Partito è un uragano
denso di voci flebili e sottili
e alle sue raffiche
saltano i fortilizi del nemico,
come timpani al rombo del cannone.
La disgrazia è sull'uomo quando è solo.
La sciagura è nel cuore del solitario.
L'uomo solo è facile preda
d'ogni potente
e persino dei deboli purché si mettano in due.
Ma se nel Partito
tutti i deboli si sono riuniti,
arrenditi, nemico, muori e giaci!
Il Partito è una mano
con milioni di dita,
stretta in un solo minaccioso pugno.
L'uomo isolato non conta,
anche se è forte
non alzerà una semplice trave,
né tanto meno una casa a cinque piani.
Ma col Partito,
reggendoci e alzandoci l'un l'altro,
costruiremo sino al cielo.
Il Partito è la spina dorsale della classe operaia.
Il Partito è l'immortalità della nostra opera.
Il Partito è l'unica cosa che non tradisce.
Oggi sono un povero commesso,
ma domani
cancellerò i regni dalla carta.
Cervello e fatica,
vigore e gloria della classe:
ecco cos'è il Partito.
Il Partito e Lenin sono fratelli gemelli.
Chi vale di più di fronte alla storia?
Noi diciamo Lenin e intendiamo il Partito,
noi diciamo Partito e intendiamo Lenin.
8.
Ancora montagne di teste incoronate
e neri borghesi come corvi d'inverno,
ma già l'incandescente lava operaia
trabocca dal cratere del Partito.
Ecco il 9 gennaio: si chiude l'avventura di Gapon.
Noi cadiamo falciati dal piombo zarista,
ma con l'eccidio di Mukden,
col fragore di Tsushima,
la delirante pietà per lo Zar è finita.
Basta! Non crederemo mai più ai vostri discorsi!
Gli operai di via Presnja sorsero armati.
Sembrò giunto il momento di farla finita col trono,
e già, dietro il trono, avvertiva le prime scosse
anche la poltrona borghese.
Lenin è qui:
giorno per giorno insieme agli operai
trascorre l'anno millenovecentocinque.
Egli è vivo col popolo su ogni barricata
e guida il corso dell'insurrezione.
Ma troppo presto, ahimé, si diffonde l'astuta notizia:
«Libertà!» E la gente si mette le coccarde
e lo Zar si sporge dal balcone
col suo miserabile editto.
Ma dopo la «libera» settimana di miele,
dopo i lunghi discorsi e le coccarde,
dopo il dolce canto degli inni,
tuonarono i cannoni e l'ammiraglio Dubasov,
il castigatore,
sguazzò in un mare di sangue operaio.
Sputiamo in faccia a questo fango bianco
che insinua sui presunti delitti della Ceka.
Guardate com'hanno frustato a morte
gli operai coi gomiti legati!
Inferociva la reazione e gli intellettuali
da tutto si distaccarono e insudiciarono tutto.
Comprarono delle candele, si rinchiusero in casa
e incensavano i cercatori di Dio.
Persino il compagno Plechanov s'intimidì:
«Colpa vostra, fratelli cari,
vi siete insabbiati! Avete versato laghi di sangue,
ma non c'è niente da fare,
è inutile impugnare le armi».
Ma Lenin levò la sua voce
alta e ferma
tra questo morboso lamento:
«No, impugnare le armi è necessario,
ma bisogna impugnarle
in maniera più energica e decisa.
Io vedo un giorno di nuove rivolte,
vedo la classe operaia insorgere ancora.
Non difesa, ma attacco
dev'essere la parola delle masse.
Quest'anno caldo di sangue,
queste ferite nelle file operaie,
saranno la nostra scuola
nel fragore e nella tempesta
delle insurrezioni future».
E Lenin,
ancora in terra d'esilio,
ci preparò a nuove battaglie.
Egli insegna e raccoglie le vissute esperienze,
egli riunisce di nuovo il Partito battuto.
9.
Gli scioperi sollevano i giorni dell'anno.
Non passerà molto tempo
e anche tu entrerai in rivolta.
Ma ecco che dalla serie degli anni
si distacca il terribile millenovecentoquattordici.
Scrivono sulle gazzette:
«Il soldato fuma la pipa
e poi torna a raccontare
le vicende delle vecchie campagne».
Ma questo macello mondiale
a qual altro metterlo accanto?
A Plevna? A Poltava?
L'imperialismo, nella sua nudità,
col ventre scoperto e la dentiera,
col sangue sino ai ginocchi,
divora i paesi irto di baionette.
D'attorno gli stanno i suoi cortigiani,
i «patrioti». Si lavano le mani
macchiate dal tradimento
e scrivono:«Operaio,
combatti sino all'ultimo respiro!»
La terra è una montagna di ferrame
e di poveri cenci umani. Solo,
in mezzo alla comune follia,
insorge Zimmerwald.
Di là,
Lenin, con un pugno di compagni,
si levò sopra il mondo
ed espresse le idee più chiare di un incendio.
Più forte del tuonare dei cannoni fu la sua voce.
Da una parte gli scoppi, gli schianti,
il balenar delle spade mulinate sopra i cavalli,
dall'altra, contro spade e cannoni,
calvo, con gli zigomi acuti sotto la pelle,
un uomo solo:
«Soldati!
Col tradimento, facendo mercato della nostra carne,
i borghesi ci mandano alla guerra
contro i turchi, a Verdun e sulla Dvina.
Basta! Trasformiamo la guerra dei popoli
in guerra civile. Basta
coi massacri, la morte e le ferite!
I popoli non hanno colpa.
Contro la borghesia di tutti, i paesi
leviamo la bandiera della rivoluzione.
Qualcuno pensò che i cannoni
starnutissero fuoco alitando marciume,
eliminando quell'uomo
senza neppure lasciarne
memoria del nome,
quand'ecco, tra sibili e tuoni
tra il fragore dell'armi,
feroci l'un contro l'altro, i Paesi
si gridano: «In ginocchio!»
Si batterono ma nessuno conquistò la vittoria:
vinse solo il compagno Lenin,
falla dell'imperialismo.
10.
La nostra pazienza, più lunga
della pazienza degli angeli,
è finita.
La Russia in rivolta
da Tabriz ad Arcangelo
ha scavato l'abisso dell'imperialismo.
L'imperiale aquila adunca col potere a due teste
non è un pollastrello implume,
ma noi ne abbiamo sputato la dinastia
come si sputa una cicca.
Il popolo,
coperto di rugginoso sangue,
in disperata affamata miseria,
costituirà i suoi Soviet o come un tempo
toglierà le castagne dal fuoco pei borghesi?
«Il popolo ha infranto le catene zariste.
La Russia vive nella tormenta e nel terrore.
Questo, in Svizzera, lesse Lenin,
tremando d'emozione, sui giornali.
Ma cosa si può apprendere
sopra i fogli sgualciti dei giornali?
Ah, lanciarsi in aereo nel cielo,
là, in aiuto agli operai insorti!
Invece, obbediente al volere del Partito,
Lenin viaggiò nel vagone tedesco sigillato.
Oh, se allora gli Hohenzollern
avessero saputo che Lenin
era una bomba anche per la loro monarchia!
I pietrogradesi in gioia
si baciano e saltano come bambini,
mai poiché sfilano in parata e col nastrino rosso
già la Prospettiva Nevskij ribolle di generali.
Passo passo arriveranno anche al fischietto di polizia.
Già cominciano a mostrare le unghiette
i borghesi dalle zampe pelose.
Da principio come cuccioli in giuoco,
poi sempre più feroci: Miljukov dei Dardanelli
e l'incoronazione del fratellino Michele...
Il "premier" non è che un ricamo a punto piatto.
Non si tratta del rozzo Commissario del Popolo,
ma di una ragazza civetta che si fa guardare,
canta con voce sottile e s'infioretta d'isterismi...
Di queste libertà di febbraio
non abbiamo ancor vista la rugiada
che già i difensori della patria
ci mostrano le verghe:
«Marcia, marcia verso il fronte, popolo lavoratore!
E a complemento del glorioso paesaggio,
che ci ha traditi sia prima che dopo,
come guardiani, si dispongono intorno
i social-rivoluzionari, quelli di Savinkov
e i menscevichi, gatti sapienti.
Quando d'un tratto, dietro la Neva,
dalla stazione di Finlandia,
attraverso il quartiere di Vyborg,
sulla città che già nuota in un velo di ghiaccio
rombò un treno blindato
e di nuovo
il gelido vento impetuoso
sollevò le schiumose onde
della rivoluzione.
Camicie e berretti invasero la via Liteiny:
«Lenin è con noi, viva Lenin!»
«Compagni!» e sopra le teste degli operai
protese la mano come a indicare una meta:
«Sbarazziamoci della socialdemocrazia,
buttiamo fuori questi stracci ammuffiti
Abbasso il potere dei conciliatori
e dei capitalisti! Noi siamo la voce profonda
della base popolare, la voce profonda
degli operai di tutta la terra.
Viva il Partito che costruisce il Comunismo!
Viva l'insurrezione per il potere dei Soviet!»
Per la prima volta, davanti alla folla stupita,
qui presso te, è balzata
come una cosa semplice, che si può fare,
l'inaccessibile parola «Socialismo».
Proprio di qui, dalle urlanti officine,
illuminando il giro dell'orizzonte,
è apparsa la futura Comune dei lavoratori,
senza borghesi né proletari, senza schiavi e padroni.
Sul groviglio delle ritorte funi
dei conciliatori, le parole di Lenin
furono colpi d'ascia. Il suo discorso
suscitò improvvise grida: «È giusto,
Lenin! Era ora!»
Il palazzo della Kshesinskaja,
regalatole perché agitava le gambe,
è ora una tuta operaia. Qui dilaga
la moltitudine delle officine
a temprarsi nella fucina di Lenin.
«Mangia pure ananassi, mastica pure pernici,
il tuo ultimo giorno sta venendo, o borghese!
Già c'insinuiamo tra chi siede nei posti padronali:
«Cosa mangiate? Come vivete?»
E per provare, nel luglio,
gli tastiamo la gola e il pancino.
I denti dei borghesi di colpo si fecero aguzzi:
«Lo schiavo s'è ribellato, bàttilo a sangue!»
E puntano l'arma di Kerenskij su Lenin.
Ancora una volta il Partito
si ritirò nell'illegalità. Il'itch è a Rasliv,
nella Finlandia,
ma non una soffitta, né un campo, né una capanna
tradirono Lenin a quella banda di vipere!
Lenin non appare ma è vicino.
Da come il lavoro procede
si vede la mente direttiva di Lenin,
la mano di Lenin che guida.
Le parole di Lenin cadono in buona terra,
danno rapidi frutti:
già spalla a spalla con gli operai
stanno milioni di spalle contadine.
11.
E quando alle barricate si giunse,
scegliendo un giorno nella serie dei giorni,
Lenin stesso apparve a Pietrogrado:
«Basta, compagni. Troppo a lungo soffrimmo.
Il giogo del capitale, il mostro della fame,
i banditi delle guerre, i ladri interventisti
ci sembreranno più bianchi dei néi
sul corpo rugoso di nonna storia antica.
Basta».
E guardando di laggiù queste giornate,
vedrai dapprima la testa di Lenin:
il suo pensiero apre una strada di luce
dall'éra degli schiavi
ai secoli della Comune.
Passeranno gli anni dei nostri tormenti
e ancora, all'estate della Comune,
scalderemo la nostra vita
e la felicità, con dolcezza di frutti giganti,
maturerà sui fiori dell'ottobre.
E chi leggerà le parole di Lenin,
sfogliando le carte gialle dei decreti,
sentirà il sangue battere alle tempie
e salire le lacrime dal cuore.
Quando rivedo ciò che ho vissuto
e scavo in quei giorni,
chiaro il ricordo mi balena:
fu il 25, il primo giorno.
Con le baionette s'infigge il lampo,
i marinai giuocano a palla con le bombe,
nel fragore sussulta Palazzo Smol'ny
e fra nastri di cartucce
crepitano dall'atrio i mitraglieri.
«Compagni, vi chiama il compagno Stalin.
destra, la terza stanza».
Egli è là:
«Compagni, presto, sulle autoblinde!
Occupate la Posta Centrale!»
«Sì», risponde un marinaio
e scompare, e sotto la lampada, sul suo berretto,
è brillato un nome, "Aurora".
Chi si lancia con un ordine
nella mischia,
chi scatta col caricatore sul ginocchio...
E qui, venendo senza rumore,
dal corridoio passò inosservato Lenin.
I soldati che Il'itch aveva guidati alla lotta,
non conoscendolo ancora dai ritratti,
accanto a lui si urtavano con grida,
con bestemmie più taglienti dei rasoi.
E in questa bufera di ferro agognata,
Lenin, assorto, camminava,
si fermava, aggrottava le ciglia,
interveniva, con le mani dietro la schiena.
Su qualche ragazzo arruffato,
con fasce alle gambe,
fissava l'occhio che batte senza sbagliare
ed era come se il cuore
si struggesse di sotto alle parole,
come se l'anima svelasse
di sotto l'intrico delle frasi.
Ed io sapevo che tutto era chiarito,
era capito, sapevo che l'occhio di Lenin
coglieva il grido del contadino
e gli urli del fronte,
la volontà delle officine Nobel,
la volontà delle officine Pulitov.
Egli girava nella memoria centinaia di province,
abbracciava un miliardo e mezzo di uomini.
Egli soppesava il mondo nel corso della notte.
E la mattina:
«A tutti, a tutti, a tutti.
A tutti i fronti rossi di sangue,
a tutti gli schiavi sotto il pugno dei ricchi.
Il potere ai Soviet.
La terra ai contadini.
La pace ai popoli.
Il pane agli affamati».
Questi messaggi lessero i borghesi
e gridarono: «Aspettate,
vi metteremo a posto. Vi faremo sparire la pancia
con argomenti persuasivi».
E chiamano Duchonin e Kornilov,
chiamano Gutchkov e Kerenskij.
Ma i messaggi di Lenin
conquistarono il fronte senza combattere.
Campagne e città inondarono i decreti:
anche gli analfabeti ne ebbero il cuore bruciato.
Sappiamo che loro, non noi,
provarono ciò che poi è accaduto.
Dagli uni agli altri passarono quelle parole,
dai vicini ai lontani, a tutti infiammarono i cuori:
«Pace alle capanne, guerra ai palazzi».
Si batterono in ogni officina,
sollevando la polvere nelle città
e dietro il passo di ottobre
arse il falò delle ville nobiliari.
La terra, lettiera sotto la frusta dei padroni,
il contadino la prese, come pagnotta dal sacco,
con tutti i suoi ruscelli e le colline,
la seminò cantando e lavorò.
Gli aristocratici, inamidati e occhialuti,
sputando rabbia,
si trascinavano in fuga
là dove ancora hanno qualche valore
i titoli di conte o di barone.
Buon viaggio!
Noi,
anche ad ogni cuoca
insegneremo a dirigere lo stato.
12.
Al lavoro delle rotative era legata la nostra vita.
Sul fronte volava alle orecchie tedesche
l'invito: «È ora di smetterla,
venite a fraternizzare!»
Il fronte si dissolveva
con le lumache dei carri-bestiame:
tanta falla di disertori
non si può chiudere col palmo della mano!
Sembrò ad un tratto che la nostra barchetta sbandasse
e che lo speronato stivale di Guglielmo,
più potente di quello zarista,
dovesse cancellare i confini del nostro potere.
A mantelli sbottonati, vennero i social-rivoluzionari
e coi loro verbali virtuosismi
accalappiarono i disertori
e li spinsero a cavallo con sciabole di latta
contro i prodigi corazzati.
Allora Lenin, in faccia a questi petulanti galletti
gridò: «Il nostro Partito
prenderà su di sé anche l'odiosa tregua di Brest.
Perdiamo spazio, ma guadagnamo tempo.
Ma perché questa tregua non ci strangoli,
perché il tedesco comprenda chi è il suo avversario,
perché non si scordi dei nostri colpi,
con disciplina libera e cosciente,
entrate a far parte dell'Armata Rossa».
Gli storici tireran fuori i manifesti con l'idra zarista
e avranno dei dubbi,
ma noi conoscemmo quell'idra
in grandezza naturale.
«Andremo alla guerra per il potere dei Soviet
e moriremo da eroi in questa giusta battaglia!»
Arriva Denikin, e respingono Denikin.
E appena le pietre dei focolari distrutti sono raccolte
arriva Wranghel in cambio di Denikin,
ma anche il barone ruzzola lontano.
Arriva Koltchak ...
«Ci ridurremo a masticare scorze,
di notte, in riva agli stagni!»
Ma si andava all'assalto
come milioni di stelle rosse
e in ognuna di esse palpitava Lenin
e di ognuno di noi egli prendeva pena
su di un fronte d'undicimila verste.
Un fronte sconfinato da percorrere in ogni senso,
ogni casa da attaccare perché nasconde un nemico
dietro la porta!
Social-rivoluzionari e monarchici spiano insonni,
mordono come serpenti
o diffondono ipotesi avventate.
Conosci tu la strada
che porta all'officina Michelson?
La troverai bagnata dal sangue di Lenin.
I social-rivoluzionari tuttavia
non mirano troppo giusto e la palla rimbalza,
colpisce la loro fronte...
Ma più tragico delle bombe e dei revolver
è l'assedio feroce della fame,
l'assedio del tifo. Guardate:
ronzano le mosche sui detriti.
Le mosche stavano meglio di noi
nel millenovecentodiciotto.
Per mezz'etto di pane
quante giornate nel gelo delle strade!
Se volete, seminate e pascolate.
Chi non darebbe un'officina
in cambio di patate?
Il cantiere navale composto di dieci reparti
ansimava e fischiava
per produrre accendisigari,
ma i "kulak" hanno cavoli e burro.
I loro calcoli sono semplici:
nascondere il grano e negli otri
le monete di Nicola e di Kerenskij.
Noi lo sappiamo: la fame fa piazza pulita.
Qui occorrono tanaglie e non molle cera.
E così Lenin
si leva ancora in battaglia contro i "kulak"
con le brigate di prelevamento.
Forse che in tempi simili a questi
la parola «democrazia»
può inebriare stoltamente qualche testa?
Se è necessario si deve battere l'avversario
finché resti una macchia sul selciato.
La chiave della vittoria, oggi, sta
nella dittatura di ferro.
13.
Abbiamo vinto ma siamo in falla.
La macchina s'è fermata, il rivestimento va in pezzi,
Ondate di rottami, brandelli di tappezzeria.
Su, dunque! Andate e ripulite!
Ma il porto dov'è?
I fari son rotti.
Sbandiamo, battezzando la cresta dei flutti
con gli alberi della nave.
Il peso di milioni di contadini
ci fa piegare sul fianco destro.
I nemici s'inebbriano con urla d'entusiasmo,
ma quello che accadde solo Lenin sapeva
e poteva fare.
Egli, di venti gradi,
girò di colpo la ruota del timone
e subito nacque un improvviso silenzio
che lasciò tutti stupiti
Ed ecco
i contadini portare pane nel porto,
ecco le insegne normali «Compra e vendita»:
N.E.P.
Lenin aggrottò la fronte: «Per ora
dobbiamo rimediare ai guasti,
adoperare l'"arstchin" e far di conto.
Se non riesci peggio per te».
In terraferma barcollava lo stanco equipaggio:
noi eravamo abituati al clima delle tempeste...
Che inganno dunque può essere questo?
Nessun inganno. Lenin segnala un golfo profondo
e il punto d'approdo è trovato:
il colosso delle Repubbliche Sovietiche
entra maestoso nella pace,
nei "docks" dell'edificazione
e Lenin stesso porta ferro e legname
per riparare le falle.
Come lastre d'acciaio
si levano e riparano i negozi,
le cooperative e i consorzi.
Poi Lenin ritorna ancora pilota.
Risplendono sui bordi le luci, a poppa e a prua.
Adesso dagli arrembaggi e dagli attacchi
passeremo all'assedio del lavoro.
Abbiamo retrocesso con un calcolo esatto
e qualcuno s'è perso sulla riva
dietro l'uragano, ma adesso avanti!
La ritirata è finita:
Partito Comunista, equipaggio a bordo!
La Comune non avrà fine.
Cosa sono per essa dieci anni? Avanti!
Scompare nel passato il trafficante della N.E.P.:
«Noi ci muoveremo cento volte più adagio,
ma un milione di volte più sicuri e più saldi».
Dietro i piccoli borghesi
s'agita ancora un mare morto.
ma le immobili nubi mandano lampi
e segnano l'addensarsi della minaccia mondiale.
Il nuovo nemico si sostituisce al nemico caduto.
Ma basta! Incendieremo i cieli sul mondo,
ma quanto a ciò è più utile agire
che mettersi a fare discorsi.
Adesso, intanto, se mangiamo o beviamo,
se dopo il pasto
ritorniamo all'officina comune,
portiamo sempre con noi una suprema certezza:
il proletariato è al potere e Lenin
ha organizzato la nostra vittoria.
Dal Komintern alle sonanti copeche
con la falce e il martello impressi nel nuovo metallo,
ogni cosa ci parla dell'epopea leninista,
dei suoi passi sicuri di vittoria in vittoria.
Enormi pesi sono le rivoluzioni,
da solo non le sopporti, ti rompono le gambe.
Ma Lenin, fra gli uguali, era il primo
per forza di volontà e alle leve dell'intelligenza.
Insorgono i paesi un dopo l'altro: la mano di Lenin
aveva indicato la giusta strada. I popoli
bianchi e i popoli di colore
vengono all'ombra della bandiera del Komintern.
Le solide colonne, i pilastri dell'imperialismo,
i borghesi dei cinque continenti,
salutano con garbo,
levandosi i cilindri e le corone reali
la Repubblica Sovietica di Lenin.
Nessuna fatica ci fa paura.
Noi lanciamo in avanti la locomotiva del lavoro...
Ma ecco, di colpo,
ecco di colpo,
la notizia pesante una tonnellata:
"la morte di Lenin".
14.
Se in un museo si esponesse
un bolscevico che piange,
quel museo tutto il giorno
sarebbe pieno di gente curiosa,
ma uno spettacolo simile
non accadrà di vedere nei secoli.
I caporioni bianchi
ci timbravano a fuoco sulla schiena
la stella a cinque punte;
ci hanno interrati sino alla testa
le bande selvagge di Mamontov;
vivi ci hanno bruciati nei forni
delle locomotive i giapponesi:
di stagno e di piombo
riempivano le nostre bocche: «Rinnegate la vostra fede»,
ci urlavano. Ma dalle gole bruciate
uscivano soltanto tre parole:
«Viva il comunismo!»
Poltrona dopo poltrona, fila dietro fila,
il 22 gennaio,
i bolscevichi, uomini d'acciaio
e di ferro,
entrarono nel palazzo a cinque piani
del Congresso dei Soviet.
Sedettero scambiandosi un sorriso.
Lì decidevano senza indugi
sui problemi del giorno. Ecco,
è ora d'incominciare.
Ma perché si ritarda? Perché
il "Presidium" si è diradato
come un bosco
dov'è stata abbattuta una pianta?
Perché gli occhi sono più rossi
del velluto del palco? Perché
Kalinin si mostra malsicuro?
Qualcosa è accaduto.
Ah, no! Come è possibile questo?
Il soffitto s'abbassò su di noi come un corvo.
Si chinarono le teste, si chinarono ancora.
Tremando divennero buie
le luci dei lampadari; s'incantò
l'inutile suono del campanello.
Poi Kalinin si alzò,
si riprese, ma non riuscì a inghiottire le lacrime
che solcavano le sue guance;
e le lacrime lo tradirono brillandogli nella barba.
Si confondono i pensieri e il sangue batte alle tempie:
«Ieri, alle sei e cinquanta minuti,
è morto il compagno Lenin».
Ciò che ha visto quest'anno
cent'anni insieme
non riusciranno a vedere.
Il giorno entrerà nella dolente memoria
dei secoli. Lo sgomento strappò un gemito al ferro:
tra i bolscevichi passò il singhiozzo
della cupa oppressione e dalle viscere li sconvolse.
Come e quando Lenin si spense?
Sulle strade e sui vicoli
navigava il Grande Teatro
simile a un catafalco.
La gioia si ritira come una lumaca.
Follemente corre il dolore. Né sole né ghiaccio,
soltanto neve nera,
nera neve che penetra ogni cosa
attraverso la carta dei giornali.
La notizia colpì l'operaio al tornio
come una fucilata;
come un bicchiere rovesciato di colpo sulla macchina
furono le sue lacrime.
E i contadini
che cento volte la morte
avevano fissato negli occhi,
si vergognavano del pianto davanti alle donne
ma li tradiva l'impronta
della mano terrosa sulla guancia.
Vi furono uomini di pietra,
uomini che a sangue si morsero le labbra.
Come vecchi si fecero seri i bambini
e come bambini piansero i vecchi
dalle barbe d'argento.
Il vento
singhiozzò sulla terra insonne,
sulla terra inquieta
che non sapeva darsi ragione
di come le fredde spoglie,
nella fredda sala di Mosca,
fossero le spoglie mortali
del padre e figlio della rivoluzione.
Morte. Morte. Morte.
Come convincersi? Un vetro
e sotto vedete...
È lui che portano dalla stazione
per la città ch'egli strappò ai signori.
La strada è come un'aperta ferita
tanto dolore è in essa e tanto geme.
Qui ogni pietra conosce Lenin
fin dai primi furiosi assalti
dell'ottobre. Qui tutto ciò
di cui le bandiere son simbolo
è stato pensato da Lenin. Qui ogni torre
ha udito la sua voce
e con lui sarebbe balzata nel fuoco. Qui
tutti gli operai conoscono Lenin:
a lui offrirono i cuori come rami di sempreverdi
gettati sulla via.
Egli guidava alla lotta prevedendo la vittoria,
egli portò i proletari al potere.
Qui il contadino
scrisse il nome di Lenin nel suo cuore
con più venerazione
che per i santi del proprio paese,
perché Lenin
comandò di chiamare nostra la terra,
la terra che gli avi fustigati
sognano ancora nella tomba.
Sembrò che i comunardi, sotto la Piazza Rossa,
mormorassero: «Fratello, amato e gentile,
oh, vivi! Ventura più grande non è necessaria,
e noi combatteremo ancora,
cento volte ancora andremo all'assalto
e torneremo nelle nostre tombe».
Ah, ora,
ora dovrebbero qui risuonare
le parole del taumaturgo
e noi morire e lui ridestarsi!
Ecco, così: si fendono in mezzo le strade
e gli uomini cantando
si precipitano alla morte.
Ma non esistono i prodigi
ed è vano sognarli.
Ecco Lenin,
ecco la bara sulle spalle curvate.
Egli era un uomo umano per ogni vena.
Portate la bara e struggetevi d'angoscia,
uomini! Un peso come questo gli oceani
non l'hanno ancora portato nei secoli,
come questa bara rossa
che naviga sulle schiene
dei singhiozzi e delle funebri marce,
verso la Casa dei Sindacati.
Ancora una volta s'irrigidisce nel tributo d'onore
la severa pattuglia
della guardia leninista,
ma aspetta la folla, immobile aspetta
lungo la via Tverskaja,
lungo la via Dimitrovka.
Nel diciassette, alla fila del pane,
a malincuore andavano le ragazze,
nonostante la fame,
ma a questa fredda spaventosa fila
tutti sono venuti,
coi bambini e con gli ammalati.
La campagna s'è fusa alla città,
insieme s'è allineata
e il dolore risuona ora virile
ed ora con la voce dell'infanzia.
La terra del lavoro sfila in parata,
vivo bilancio della vita di Lenin.
Sorge il sole di lacca gialla
e colpisce d'obliqui raggi la terra!
Come inchiodati, piangendo la loro speranza,
piegati dal dolore,
passano i cinesi
Vagano le notti
sull'onda dei giorni,
mutando le ore,
confondendo le date,
come se notte non vi fosse,
né stelle nel suo buio,
ma solo le lacrime
dei negri che piangono Lenin
negli Stati Uniti.
Il freddo morde i piedi alle suole
ma gli uomini passano i giorni accalcati.
Han persino timore
di scaldarsi battendo le mani,
il timore di fare una cosa inopportuna.
Il freddo afferra e trascina,
scruta negli uomini
quanto temprati essi sian nell'amore.
S'insinua nella folla,
in essa si confonde,
con essa avanza nella Sala delle Colonne.
I gradini si alzano quasi ostacoli, scogli.
Con il canto si spegne il respiro.
È uno strazio nel cuore andare avanti.
Ora i gradini diventano un baratro
un abisso di vertigini al piede.
Quattro gradini: un abisso dalle generazioni schiave
cui solo era nota
la sonante ragione dell'oro.
La bara di Lenin segna il distacco.
E più oltre l'orizzonte della Comune.
Cosa vedi?
Solo la sua fronte...
e dietro, nel buio, Nadegida Konstantinovna.
Può darsi che ad occhi asciutti,
può darsi che senza lacrime
si possa veder meglio,
ma io ho visto con questi occhi.
Le palpitanti bandiere
s'abbassano per l'estremo saluto:
«Addio, compagno,
tu hai compiuto con onore
il tuo valoroso, generoso cammino.»
Un terrore mi prende. No, non voglio guardare.
Come se camminassi
sui fili del telegrafo, mi muovo;
come se per un attimo
fossi solo, sommerso in questa unica verità.
Ma ecco, io mi sollevo. Ecco,
l'acqua della risonante marcia
trasporta il mio corpo senza peso. Io so,
oggi per sempre,
io so che è in me questo momento.
Sono felice d'essere una molecola
di questa vivente forza
dove anche il pianto è comune.
Non è possibile partecipare
con più vitale purezza
al sentimento della classe operaia.
Ancora, le bandiere
abbassano le ali per sollevarsi alla lotta
più forti, verso il domani. «Noi stessi, fratello,
abbiamo chiuso i tuoi occhi d'aquila».
Non si cade se si sta spalla a spalla.
Col lutto sulle bandiere,
con le palpebre rosse,
s'accompagnava così Il'itch all'estremo saluto,
indugiando presso il Mausoleo.
La cerimonia si svolge, si pronunciano i discorsi
e il tempo è breve, non contiene tanto dolore.
Chi mai può coglierne la grandezza?
Passano gli uomini guardando in alto
il nero quadrante coperto di neve:
come scattano impazzite
le lancette sulla torre Spasskaja.
Ogni minuto è uno scatto
fulmineo.
O vita, o movimento,
fermatevi! E voi che alzate il martello,
restate di rigido gelo. O terra,
muori, còricati e giaci!
Qui è silenzio. Il più grande dei cammini è compiuto.
Mille cannoni tuonarono, ma questa salve
non sembrò più forte
del soldo tintinnante nella tasca del povero.
Dilatando sino al dolore
la mia debole vista,
rimango intirizzito e senza respiro.
Davanti a me sta, nitido, nel riflesso delle bandiere,
l'immobile nero globo terrestre,
e sul globo, sul mondo,
una bara immobile e muta.
E accanto alla bara,
noi, rappresentanti degli uomini,
per moltiplicare con la tempesta delle insurrezioni,
con le opere e la poesia
ciò che oggi abbiamo veduto.
15.
Ma ecco, da lontano, la luce rossa.
Nell'aria di gelo,
verso di noi attenti e silenziosi,
una voce si levò: «Marciate al passo».
Ma quest'ordine non era necessario.
Sciogliendo con fatica il peso del corpo,
respirando più forte,
insieme e più rapidi,
segnammo il passo dalla piazza in avanti.
Ora, con mano ferma, alzino sulle teste le bandiere.
Calpestio tempestoso dei piedi.
Questa forza, ah, sì! questa forza,
dilatandosi in cerchi,
si comunicherà al pensiero del mondo.
Ma un pensiero comune
è intanto nel cuore,
nella mente dei contadini,
degli operai e dei soldati:
«Sarà più duro, per la Repubblica,
vivere senza Lenin, la sua guida».
Chi prenderà il suo posto?
Come sostituire la sua forza?
Basta, dormire sul letto di piume!
«Compagno segretario,
ecco, a te:
chiediamo l'iscrizione alla cellula X,
subito ed in maniera collettiva,
di tutta l'officina... »
I borghesi ci guardano stupiti,
dilatando gli occhietti, sussultando
allo scroscio del passo potente.
Quattrocentomila, generosi, ardenti,
venuti dalle officine:
ecco la prima corona di partito
offerta al compagno Lenin.
«Compagno segretario,
prendi la penna... Ho sentito
che occorre sostituire... che bisogna...
Io sono vecchio, ma c'è mio nipote,
si farà onore: iscrivilo nel "Komsomol".»
Flotta rossa, leva le ancore!
È tempo che le talpe sottomarine
prendano il largo:
«Sul mare sul mare:
oggi siam qui, domani siam là».
Brilla più alto, sole!
Tu sarai testimonio.
Sciogli il silenzio
delle bocche chiuse nel lutto.
I bambini s'agguantano
alle gambe dei grandi:
«Un, due, tre:
noi siamo i pionieri,
contro i fascisti andiamo di corsa all'assalto».
Il pugno alzato dell'Europa ci provoca invano.
Indietro,
non osare!
La morte di Lenin
è diventata il primo
degli organizzatori comunisti.
Riunendo in un'asta
l'immane selva delle ciminiere,
i milioni di braccia,
la Piazza Rossa si solleva in alto
con la rossa bandiera,
con un balzo che scuote tutto il cielo.
E da questa bandiera,
da ogni sua piega,
ecco, di nuovo vivo, Lenin ci chiama:
«Proletari, serrate le file
per l'ultimo scontro.
E voi, schiavi, rialzate le schiene e i ginocchi.
Armata proletaria, sorgi e avanza!
Allegra e veloce, viva la nostra Rivoluzione!»
Tra tutte le guerre
che han devastato il corso della storia,
questa è l'unica grande giusta guerra.
---------------------------
Note:
1. Questo poema è stato composto tra l'aprile e l'ottobre del 1924.
Vladimir Il'itch Lenin.
1.
Tempo, incomincio qui la storia di Lenin.
Non perché la tristezza sia spenta,
ma perché quell'angoscia
s'è fatta chiaro cosciente dolore.
O tempo, scatena ancora
le parole d'ordine leniniste.
Dobbiamo forse affondare
in uno stagno di lacrime?
Lenin, anche oggi,
è più vivo di tutti i viventi,
è la nostra scienza, arma e vigore.
Pur vivendo sulla terra,
gli uomini sono barche.
Non puoi vivere la tua vita
senza che croste d'inquinate conchiglie
s'attacchino ai tuoi fianchi.
Ma più tardi,
uscito fuori dalla tempesta,
ti siedi al sole
e raschi l'algosa barba verdastra,
la glutinosa pasta delle meduse...
Io, invece, sono stato raschiato da Lenin
per navigare in avanti
sui flutti
della rivoluzione.
Come di un bambino temi
la bugia, così
mi sgomentano le migliaia di righe.
Ho paura che una corona sulla sua testa
possa nascondere la sua fronte
così umana e geniale,
così vera. Sì, io temo
che processioni e mausolei,
con la regola fissa dell'ammirazione,
offuschino d'aciduli incensi
la semplicità di Lenin; io temo,
come si teme per la pupilla degli occhi,
ch'egli venga falsato
dalle soavi bellezze dell'ideale.
Dentro il cuore mi parla
ed io scrivo per espresso mandato del dovere.
In tutta Mosca, la terra stretta dal gelo
è scossa dal fragore.
Gli uomini intirizziti dal freddo della notte
si riscaldano ai fuochi
dei falò.
Perché tanto onore per lui?
Di dove viene quest'uomo?
Districo dalla memoria
catene di sillabe,
ma la sillaba giusta
non trovo.
Com'è povera, ahimé, nel nostro mondo,
l'officina delle parole!
Dove trovare quello che occorre?
Sette giorni, dodici ore: non si vive più a lungo:
la morte non sa perdonare.
E brevi sono le ore e piccola la misura
del calendario,
ma noi parliamo di «epoche»e di «ére».
La notte dormiamo
e di giorno andiamo al lavoro.
Ci piace pestare la nostra acqua nel nostro mortaio.
E se un uomo,
da solo e per tutti,
può dirigere il corso degli eventi,
noi allora lo chiamiamo «Profeta»,
noi allora lo chiamiamo «Genio».
Noi siamo gente senza ambizioni,
se non ci chiamano a nome
non ci muoviamo, piacciamo a nostra moglie
e di ciò ci sentiamo soddisfatti.
Ma se un uomo fonde l'anima al corpo
e non come noi conosce corruzione
noi allora diciamo «figura imperiale»,
ripetiamo stupiti «è un dono di Dio!»
Questi sono i discorsi,
né stupidi né intelligenti,
i vani discorsi le cui parole
come fumo o come larve,
restano inafferrabili, distanti
dalla tua vita.
Che farsene di queste parole?
Come fare
a misurare Lenin con simile metro?
Abbiamo visto coi nostri occhi:
quest'«éra» ha varcato la porta
senza urtare lo stipite con la testa.
Ma è possibile che di Lenin
si debba dire ancora «Capo per grazia divina?»
Ah, no! Se fosse stato divino o imperiale,
la mia ira sarebbe esplosa.
Mi sarei messo contro i cortei,
avrei sbarrato la strada alle folle,
avrei fermato l'adorazione.
Anche investito e calpestato,
avrei scagliato bestemmie contro il cielo.
Ma il passo di Dzerginskij
può restare tranquillo
presso la bara
e tranquilla la Ceka. Da milioni di occhi,
dai miei occhi,
sono scese due lacrime di gelo
ed ora sono ferme sulle guance.
Non sono novità questi onori ufficiali,
eppure, oggi,
il cuore è colpito
da un'offesa vera.
Noi seppelliamo quest'oggi
l'uomo più terrestre
che sulla terra abbia camminato,
un uomo terrestre non come quelli
che vedono soltanto il loro passo,
ma un uomo terrestre
che ha visto il segreto del mondo
e ciò che il tempo nasconde.
Egli è simile a noi,
in tutto uguale,
solo, all'angolo degli occhi
più che a noi
forse, gli corrugano la pelle i suoi pensieri
e le labbra ha più ironiche e più dure.
Ma non è la durezza del tiranno
che ti travolge sul carro del trionfo
con uno strappo di redini.
Lenin si ergeva contro il nemico
più duro del ferro,
ma col compagno era dolce
come una materna carezza.
Le nostre debolezze erano le sue debolezze,
come noi superava le stesse malattie,
come noi che diciamo «Il bigliardo mi esercita l'occhio»,
egli apprezzava il giuoco degli scacchi,
il giuoco degli strateghi.
E dagli scacchi,
volgendosi contro il nemico di classe,
mutando in uomini le pedine,
egli fondò l'umanissima dittatura operaia
sopra la torre carceraria del capitale.
A lui furono care le stesse cose che a noi sono care.
Ma perché, ditemi perché,
perché mai, io poeta, così lontano da lui,
ebbro di gioia darei la mia vita
per un suo respiro? Sono forse migliore degli altri?
E non io soltanto. Senza nemmeno chiamarvi,
al minimo cenno,
chi di voi dai villaggi e dalle miniere,
non si farebbe avanti?
Come per troppo vino, o troppo dolore,
barcollo e solo per un istinto
mi tengo lontano dalla linea del tram.
Ma chi piangerebbe la mia piccola morte
in questo gorgo di lutto, in questa morte?
Si muovono con le bandiere, senza bandiere,
e così pare, come agli antichi tempi,
che tutta la Russia sia diventata nomade ancora.
La Sala delle Colonne trema sotto i passi.
Il telegrafo è rauco per il lungo
luttuoso ululato.
Scendono lacrime di neve
dalle palpebre, rosse come bandiere.
Ma chi è dunque?
Quali gesta ha compiuto?
Di dove viene quest'uomo
di ogni uomo più umano?
2.
Breve è la vita di Ul'janov
e noi la conosciamo sino al suo palpito estremo,
ma la vita di Lenin non ha fine.
Dobbiamo scriverla e riscriverla ancora.
Le sue prime notizie
risalgono oltre cento e cent'anni.
Ascoltate la ferrea voce
che viene attraverso i secoli,
la voce della prima caldaia
dell'antenato di Bromley e di Goujon.
Sua Altezza il Capitale,
senza corona e diadema,
piegava in schiavitù la forza contadina;
la città derubava e saccheggiava
e impinguava l'obesa pancia
delle sue casseforti.
Ma intanto,
gobba sui torni e macilenta,
nasceva la classe operaia
e già come una minaccia
alzava nel cielo le ciminiere:
«Voi lastricate per noi la strada dell'oro.
Si nasce e si muore, ma un giorno
da noi sorgerà
un uomo di lotta e di castigo,
un uomo di vendetta».
Fumo e nuvole
ingombrano il cielo e si confondono
come soldati di una stessa armata.
Poi due cieli nascono in cielo
per il fumo che occulta le nubi.
Si accumulano le merci,
sono montagne tra i poveri,
e il direttore, diavolo calvo,
tira le somme alla calcolatrice,
e mettendo fuori il cartello «Serrata»,
brontola:«Crisi».
Di dolcezza si nauseano le mosche,
il grano marcisce nei silos,
mentre lungo le vetrine
colme d'alimentari,
stringendo la cintola,
sfilano i disoccupati. Il ventre dei quartieri popolari
protesta e copre coi suoi gemiti
il pianto dei bambini.
«Per avere un lavoro è forse necessario
impugnare il fucile con entrambe le mani?
E mostrano le mani vuote.
O difensore e vendicatore, vieni!
Ehi cammello, scopritore di colonie,
marcia sulla sabbia dei deserti
più ardente del fuoco.
Ehi flotte d'acciaio,
alzate schiume più candide di fogli di carta!
Sulle oasi di palme soavi
s'addensano macchie oscure
e fuori, tra l'oro delle piantagioni,
grida il negro sotto lo staffile:
«O Nilo, mio Nilo,
intrica e districa i miei neri giorni
perché siano infine più neri
del mio sonno nero,
perché infine l'incendio
sia più rosso di questo mio sangue,
perché infine in tutto questo caffè
si cuociano vivi
questi grassi aguzzini bianchi e neri.
Ogni zanna d'avorio
che noi raccogliamo,
piàntala nel loro cuore,
piàntala nella loro carne.
Anche se verrà solo per i nostri nipoti,
non sarà inutile questo mio sangue.
Vieni, oh vieni,
difensore col viso di sole!
Io muoio. Il dio delle Morti mi chiama.
Ma tu, Nilo, mio Nilo,
ricorda questo grido».
3.
In Russia, tra le nevi,
nei deliri della Patagonia,
il tempo ha impiantato i tornî del sudore.
A Ivanov e a Voznesensk
i quartieri sono inquieti
di voci e canzoni:
«Ehi, tu, mia fabbrica con gli occhi gialli,
è tempo che venga
un nuovo Sten'ka Razin.»
I nipoti domanderanno cosa vuol dire «capitalista»,
come adesso i nostri bambini
voglion sapere
cosa significhi la parola «gendarme».
Ecco, io scriverò in una pagina,
per i nostri nipoti,
la genesi del capitalismo.
Nei suoi giovani anni,
un qualsiasi intraprendente ragazzo
era il capitalismo;
primo nella fatica, non aveva timore che il lavoro
gli insudiciasse la camicia.
Il feudale colletto ricamato
gli andava davvero troppo stretto,
si azzuffò non peggio
di come oggi ci si azzuffi.
Nella sua primavera il capitalismo
fiorì di rivoluzioni
e persino intonò la Marsigliese nelle strade.
Creò la macchina e gli uomini
che insieme la fecero andare.
Senza tregue,
moltiplicò nel mondo la gente operaia
e con aquile e corone
si divorò in un boccone
i regni e i principati.
Ma più tardi,
come la biblica vacca,
si accovacciò, come un bue che si lecca:
la lingua fu il parlamento.
Gli pesavano gli anni,
l'acciaio dei suoi muscoli infiacchì
e col passare del tempo,
divenne gonfio e deforme,
simile ai suoi grossi registri
di contabilità.
Innalzò splendenti palagi
e più d'un artista strisciò su quei muri...
Pavimenti stile impero,
soffitti rococò,
pareti Luigi Quattordicesimo, "quatorze"...
E tutto intorno la polizia faccia-di-culo.
È, sorda l'anima ai canti e ai colori,
come le mucche lo sono ai fiori
in mezzo al prato. Etica, estetica
e simile roba
non sono per lui che donne di servizio.
L'inferno e il paradiso gli appartengono,
alle bigotte vende i buchi
che han fatto i chiodi
sulla croce di Nostro Signore
o magari la coda dello Spirito Santo.
Così il capitalismo sopravvive.
Ora per lui lavora lo schiavo.
Sfruttando, mangiando, dormendo,
s'è fatto grasso e animoso.
Ma già si dissecca
e giace traverso sul cammino della storia,
facendo del mondo il suo letto.
Non è possibile evitarlo,
non è possibile girargli a lato.
L'unica via d'uscita
è quella di farlo saltare.
Ah, lo so! Il poeta lirico farà una smorfia
amaramente
e il critico impugnerà la frusta
facendola sibilare:
«Ma dov'è l'anima? Dov'è la poesia?
Questa è solo retorica o giornalismo».
Lo so, «capitalismo» non è una parola elegante,
ha un suono più dolce la parola «usignuolo»,
ma io non mi arrendo per così poco.
Io lancio il mio verso
come una parola d'ordine e di lotta,
una parola d'agitazione.
Certo, un giorno io scriverò di questo e di quello,
ma oggi non è tempo per fiabe d'amore.
Oggi, tutto il vigore del mio canto
lo dono a te, classe all'attacco,
proletariato!
Che suono stridente ha questa parola
per chi non è che inferno il Comunismo,
ma per noi
questa parola è musica profonda
che risveglia i morti dalla lotta.
La paura
invade i piani nobili dei palazzi,
l'urlo delle cantine
si leva su sino ai più alti quartieri.
Irromperemo nell'azzurro spalancato del cielo,
usciremo dalla cava di pietra.
Sarà così: in una misera branda
nascerà il figlio operaio,
la guida dei proletari.
Il globo terrestre non basta.
La sazia carogna del capitale,
con la mano pesante d'anelli,
si protende per agguantare il nemico alla gola.
Ma quale nemico?
Udite! Vanno col fuoco,
alzando stridori e clamori,
urlando: «A morte!
Non c'è posto per due borghesi».
Ogni paese è una tomba, una fossa comune.
Le città sono fabbriche ortopediche.
Ora è finita:
la vittoria sta sul tavolo...
Ma udite,
udite la sotterranea voce nelle tombe,
udite le nacchere delle stampelle.
«Voi ci vedrete ancora nel bagliore della guerra.
Il tempo non perdona questa colpa.
Egli verrà, romperà gli indugi,
dichiarerà
guerra a voi e alla vostra guerra!»
Stagni di lacrime sulla terra,
torbidi stagni di lacrime.
Solitari sognatori
cercarono soluzioni in assurde utopie;
filantropi si ruppero il capo
contro l'aspra durezza della vita;
ma forse che la strada
di milioni e milioni di uomini vivi
può essere il sentiero dei filantropi?
Anche i capitalisti ora sono impotenti:
la macchina s'è inalberata.
Il loro regime, come foglie ingiallite,
solleva il caos delle crisi,
dà un rapido via agli scioperi.
«Nelle tasche di chi andiamo a finire
come una lava d'oro?
A chi dare la colpa? Con chi andare?»
E la classe operaia che ha milioni di teste,
fissa lo sguardo cercando di capire se stessa.
Il tempo ha ingoiato le ore del capitale
più veloce del lampo dei riflettori.
Il tempo ha generato Marx,
il fratello maggiore di Lenin.
Marx! Lo vedi venire avanti
dal fondo di un ritratto canuto.
Ah, come sono lontane dalla sua vita
le nostre fantasie!
La gente vede
murato nel marmo col gesso
un uomo divenuto freddo, ma quando
sulla strada della rivoluzione
mossero gli operai i primi passi,
oh, quale fiammeggiante fuoco
era acceso nel cuore e nella mente di Marx!
Come se lavorasse in ogni officina,
come se ogni lavoro lo facesse con le sue mani,
colse in flagrante
coloro che predano il plus-valore.
E dove gli operai in tremore
non osavano alzare lo sguardo
nemmeno all'ombelico dell'agente di borsa,
Marx, con la lotta di classe,
guidò il colpo
contro il vitello d'oro fattosi bue.
A noi prima sembrava
che solo le onde del caso
ci gettassero incalzando
sugli approdi del Comunismo,
ma Carlo Marx, aprendo le leggi della storia,
mise il proletariato al timone.
I libri di Marx
non sono bozze di stampa,
non sono colonne di aride cifre,
Marx ha messo gli operai sui piedi
ed ha guidato colonne ben più vive dei numeri.
Guidò gli operai dicendo:
«Cadete combattendo.
Si tratta di correggere i calcoli del cervello.
Egli verrà, verrà il grande stratega
a dirigere le battaglie
in campo aperto e non sulla carta».
Io so che macinando le estreme conclusioni
con la mola dei suoi pensieri
e scrivendo con la sua mano
pallida come la cera,
Marx ebbe la visione del Cremlino
e vide la bandiera della Comune
sventolante sulla Piazza Rossa.
I giorni crescevano maturando come i meloni.
Il proletariato non fu più bambino.
Le sue ondate scuotevano le fortezze
vertiginose del capitale.
A distanza di pochi anni
queste minacce echeggiano d'ira
e l'ira repressa sfocia in rivolte
e dal baleno delle rivolte
nascono le rivoluzioni.
I metodi borghesi sono crudeli.
Straziati dai Thiers,
gridano i loro lamenti le ombre dei Comunardi,
oggi ancora gridano sotto i muri di Parigi:
«Ascoltate, compagni! Imparate da noi.
Guai ai solitari! Colpite
uniti in un solo partito, stretti in un unico pugno!
Ci sono di quelli che dicono: "Noi siamo i capi!"
ma non sono che parolai. Dietro le loro parole
sappi distinguere la pelle!
Verrà un capo che tutti gli altri spingerà nel buio,
più semplice del pane,
più diritto dei binari.»
Confusione di classi e di fedi
di ceti e di lingue: sulle ruote dell'oro
si muoveva la terra. Il capitale,
istrice di contraddizioni,
ingigantì smisurato,
si rafforzò di nude baionette.
Lo spettro del comunismo
s'aggirava per l'Europa,
si allontanava, di nuovo
balenava lontano...
Per tutto questo, nella remota Simbirsk,
nacque un bambino come tutti gli altri:
Lenin.
4.
Ho incontrato un operaio analfabeta.
Non sillabava neppure una parola.
Ma aveva sentito la voce di Lenin
ed egli sapeva tutto.
Ho ascoltato
il racconto d'un contadino siberiano:
espropriarono le terre, le difesero con le baionette
e come un paradiso diventò il villaggio.
Essi mai avevano letto Lenin,
né ascoltata la sua parola,
ed erano leninisti.
Ho visto montagne senza erbe né fiori.
Soltanto le nuvole pesavano sulle rocce
e nello spazio di cento verste
c'era un solo montanaro,
ma sopra il petto, sul vestito di stracci,
gli scintillava il simbolo di Lenin.
Oh, non è un ornamento
che le ragazze appuntano per civetteria,
non è un amuleto, è un emblema
il distintivo sul cuore che brucia
pieno d'amore per Il'itch.
Questo prodigio non si spiega coi libri
della subdola teologia slava
e non è un Dio che a lui ordinò: «Sii il mio eletto».
Con passo d'uomo
e braccia d'operaio,
con la sua intelligenza,
egli percorse questo cammino.
5.
Getta uno sguardo dall'alto sopra la Russia:
la vedrai azzurra di fiumi
come striata da colpi di frusta.
Ma più azzurri dell'acqua in primavera
sono i lividi della Russia serva della gleba.
Guarda la Russia dalle sue pianure:
dovunque rivolgi gli occhi
vedi levarsi nel cielo montagne, prigioni e ciminiere.
Ma la schiavitù dei tornî nelle fabbriche
è ben più dura delle prigioni.
Ho visto paesi più ricchi, più belli e più civili,
ma una terra con più dolore
non mi è mai capitato di vedere.
È così: non tutte le percosse
si possono cancellare dalle guance.
Un urlo echeggiava intorno:
«In piedi, per la terra e per la libertà!»
Rivoltosi solitari impugnavano armi,
cercavano bombe. È giusto scagliare ferro e piombo
contro lo zar, ma spesso non si solleva
che la polvere della strada
sotto le ruote del cocchio.
Il fratello di Lenin, il populista Alessandro,
viene arrestato
perché tramava la morte dello Zar:
se uno ne uccidi,
un altro ne giunge, gonfio di rabbia,
che ripete gli orrori del tiranno caduto.
Ul'janov Alessandro fu impiccato
come migliaia di quelli di Slisselburg.
6.
Allora, a diciassette anni, Lenin disse queste parole,
più ferme del giuramento a mano alzata
che pronuncia il soldato:
«Fratello, siam pronti a darti il cambio.
Noi vinceremo, ma seguendo un altro cammino.»
Guardate i monumenti,
osservate la stirpe degli eroi.
Diventerà un nuovo Gogol
e noi lo onoreremo con corone d'alloro?
No, non è questa la strada di Lenin.
Una fatica da manovale egli si buttò sulle spalle.
All'officina, insieme agli operai,
insegna il modo
perché il salario cresca di un soldo,
insegna cosa si deve fare
quando il capo va sulle furie
o come si deve agire
perché il padrone mandi giù, magari acqua bollente.
Ma non è piccolo lo scopo finale;
dopo aver vinto non ti ritrovi
come in mezzo a una stanza ripulita:
il socialismo è lo scopo,
il capitalismo l'ostacolo. Non la scopa, dunque,
ma il fucile!
Lenin parla,
ripete le stesse parole,
trova la via del cuore più sordo,
e il giorno dopo
una mano stringe una mano,
due uomini si sono compresi.
Ieri quattro, oggi quattrocento.
Ci nascondiamo, ma presto usciremo all'aperto
e i quattrocento saranno migliaia.
Solleviamo in rivolta i lavoratori del mondo.
Non siamo più silenziosi come le acque
e piccoli come i fili dell'erba.
L'ira degli operai s'addensa in una nube
che trafigge coi fulmini dei libelli di Lenin,
che tempesta furiosa grandine
di manifesti e proclami.
Lenin incontrò la classe degli umili
che alla sua voce dischiuse gli occhi,
e assorbite le idee, la forza delle masse,
insieme alla classe operaia crebbe il giovane Lenin.
Si trasforma e diventa realtà
il senso del suo giuramento:
«Noi non siamo dei solitari,
ma siamo l'Unione di lotta
per il riscatto della classe operaia».
Il leninismo avanza, si allarga,
si diffonde per bocca dei nuovi compagni.
Sono scritte col sangue
le gesta eroiche dell'illegalità,
sono scritte nel fango e nella polvere
dell'infinita Volodimirka!
Ma adesso siam noi
che facciamo girare il globo terrestre.
E tuttavia, anche seduti nelle poltrone del Cremlino,
a quanti, d'improvviso,
tra i fogli dei decreti,
la vecchia Nertchinsk stride in cuore
al ricordo delle sue catene!
Di nuovo io vi rammento
la libera via degli uccelli e nella strada
il trotto elettrico dei tram...
Ah, chi di voi non morse le inferriate?
Ci fu pure chi si spaccò la fronte
sulla pietra dei muri:
acqua e scopa, i guardiani lavarono la cella.
«Poco tempo hai lottato, ma con onore,
per il bene della tua terra natale»,
in quale esilio piacque a Lenin
la funebre forza di questo canto?
Dicevano che il contadino
sarebbe andato per la sua strada,
costruendosi per sé un socialismo
semplice e ingenuo.
Non è così, perché anche la Russia
si fa irta di ciminiere.
Sulle città cresce una barba di fumo...
Non si tratta di un «Prego, prego,
s'accomodi in Paradiso!»
Attraverso il cadavere della borghesia
s'apre il passo il Comunismo.
Ai cento milioni di contadini,
la classe operaia è guida sicura
e di questa classe Lenin è il capo.
L'agile social-rivoluzionario,
lui pure ghiotto dei forti colli operai,
insieme al liberale,
dipana promesse su promesse.
Ma la critica di Lenin
corrode la vernice delle frasi eleganti
e mette a nudo la loro rapace realtà.
Non bastano più i discorsi
sull'"essenza della libertà,
sul tema degli uomini tutti fratelli",
noi siamo in pieno movimento marxista,
siamo il primo partito bolscevico del mondo.
L'America si percorre in vagone letto.
Se tu vai a Tchuklóma
anche là ti salteranno agli occhi
le due lettere "P. C."
e accanto, tra parentesi, la minuscola "b".
È così: l'osservatorio di Pulkovo indaga su Marte,
frugando nello scrigno dei cieli,
ma ormai, per il mondo,
quella piccola lettera alfabetica
è cento volte più grande, più rossa, più chiara.
7.
Qui da noi le parole più profonde
diventano abitudine,
invecchiano come i vestiti,
ma io voglio costringere una grande parola
a splendere di nuovo, la parola "Partito".
Un uomo solo, in se stesso racchiuso,
a che cosa può essere utile? Chi mai
gli darà ascolto? Forse la moglie,
e non sempre, non in piazza
ad esempio,
forse solo nell'intimità.
Il Partito è un uragano
denso di voci flebili e sottili
e alle sue raffiche
saltano i fortilizi del nemico,
come timpani al rombo del cannone.
La disgrazia è sull'uomo quando è solo.
La sciagura è nel cuore del solitario.
L'uomo solo è facile preda
d'ogni potente
e persino dei deboli purché si mettano in due.
Ma se nel Partito
tutti i deboli si sono riuniti,
arrenditi, nemico, muori e giaci!
Il Partito è una mano
con milioni di dita,
stretta in un solo minaccioso pugno.
L'uomo isolato non conta,
anche se è forte
non alzerà una semplice trave,
né tanto meno una casa a cinque piani.
Ma col Partito,
reggendoci e alzandoci l'un l'altro,
costruiremo sino al cielo.
Il Partito è la spina dorsale della classe operaia.
Il Partito è l'immortalità della nostra opera.
Il Partito è l'unica cosa che non tradisce.
Oggi sono un povero commesso,
ma domani
cancellerò i regni dalla carta.
Cervello e fatica,
vigore e gloria della classe:
ecco cos'è il Partito.
Il Partito e Lenin sono fratelli gemelli.
Chi vale di più di fronte alla storia?
Noi diciamo Lenin e intendiamo il Partito,
noi diciamo Partito e intendiamo Lenin.
8.
Ancora montagne di teste incoronate
e neri borghesi come corvi d'inverno,
ma già l'incandescente lava operaia
trabocca dal cratere del Partito.
Ecco il 9 gennaio: si chiude l'avventura di Gapon.
Noi cadiamo falciati dal piombo zarista,
ma con l'eccidio di Mukden,
col fragore di Tsushima,
la delirante pietà per lo Zar è finita.
Basta! Non crederemo mai più ai vostri discorsi!
Gli operai di via Presnja sorsero armati.
Sembrò giunto il momento di farla finita col trono,
e già, dietro il trono, avvertiva le prime scosse
anche la poltrona borghese.
Lenin è qui:
giorno per giorno insieme agli operai
trascorre l'anno millenovecentocinque.
Egli è vivo col popolo su ogni barricata
e guida il corso dell'insurrezione.
Ma troppo presto, ahimé, si diffonde l'astuta notizia:
«Libertà!» E la gente si mette le coccarde
e lo Zar si sporge dal balcone
col suo miserabile editto.
Ma dopo la «libera» settimana di miele,
dopo i lunghi discorsi e le coccarde,
dopo il dolce canto degli inni,
tuonarono i cannoni e l'ammiraglio Dubasov,
il castigatore,
sguazzò in un mare di sangue operaio.
Sputiamo in faccia a questo fango bianco
che insinua sui presunti delitti della Ceka.
Guardate com'hanno frustato a morte
gli operai coi gomiti legati!
Inferociva la reazione e gli intellettuali
da tutto si distaccarono e insudiciarono tutto.
Comprarono delle candele, si rinchiusero in casa
e incensavano i cercatori di Dio.
Persino il compagno Plechanov s'intimidì:
«Colpa vostra, fratelli cari,
vi siete insabbiati! Avete versato laghi di sangue,
ma non c'è niente da fare,
è inutile impugnare le armi».
Ma Lenin levò la sua voce
alta e ferma
tra questo morboso lamento:
«No, impugnare le armi è necessario,
ma bisogna impugnarle
in maniera più energica e decisa.
Io vedo un giorno di nuove rivolte,
vedo la classe operaia insorgere ancora.
Non difesa, ma attacco
dev'essere la parola delle masse.
Quest'anno caldo di sangue,
queste ferite nelle file operaie,
saranno la nostra scuola
nel fragore e nella tempesta
delle insurrezioni future».
E Lenin,
ancora in terra d'esilio,
ci preparò a nuove battaglie.
Egli insegna e raccoglie le vissute esperienze,
egli riunisce di nuovo il Partito battuto.
9.
Gli scioperi sollevano i giorni dell'anno.
Non passerà molto tempo
e anche tu entrerai in rivolta.
Ma ecco che dalla serie degli anni
si distacca il terribile millenovecentoquattordici.
Scrivono sulle gazzette:
«Il soldato fuma la pipa
e poi torna a raccontare
le vicende delle vecchie campagne».
Ma questo macello mondiale
a qual altro metterlo accanto?
A Plevna? A Poltava?
L'imperialismo, nella sua nudità,
col ventre scoperto e la dentiera,
col sangue sino ai ginocchi,
divora i paesi irto di baionette.
D'attorno gli stanno i suoi cortigiani,
i «patrioti». Si lavano le mani
macchiate dal tradimento
e scrivono:«Operaio,
combatti sino all'ultimo respiro!»
La terra è una montagna di ferrame
e di poveri cenci umani. Solo,
in mezzo alla comune follia,
insorge Zimmerwald.
Di là,
Lenin, con un pugno di compagni,
si levò sopra il mondo
ed espresse le idee più chiare di un incendio.
Più forte del tuonare dei cannoni fu la sua voce.
Da una parte gli scoppi, gli schianti,
il balenar delle spade mulinate sopra i cavalli,
dall'altra, contro spade e cannoni,
calvo, con gli zigomi acuti sotto la pelle,
un uomo solo:
«Soldati!
Col tradimento, facendo mercato della nostra carne,
i borghesi ci mandano alla guerra
contro i turchi, a Verdun e sulla Dvina.
Basta! Trasformiamo la guerra dei popoli
in guerra civile. Basta
coi massacri, la morte e le ferite!
I popoli non hanno colpa.
Contro la borghesia di tutti, i paesi
leviamo la bandiera della rivoluzione.
Qualcuno pensò che i cannoni
starnutissero fuoco alitando marciume,
eliminando quell'uomo
senza neppure lasciarne
memoria del nome,
quand'ecco, tra sibili e tuoni
tra il fragore dell'armi,
feroci l'un contro l'altro, i Paesi
si gridano: «In ginocchio!»
Si batterono ma nessuno conquistò la vittoria:
vinse solo il compagno Lenin,
falla dell'imperialismo.
10.
La nostra pazienza, più lunga
della pazienza degli angeli,
è finita.
La Russia in rivolta
da Tabriz ad Arcangelo
ha scavato l'abisso dell'imperialismo.
L'imperiale aquila adunca col potere a due teste
non è un pollastrello implume,
ma noi ne abbiamo sputato la dinastia
come si sputa una cicca.
Il popolo,
coperto di rugginoso sangue,
in disperata affamata miseria,
costituirà i suoi Soviet o come un tempo
toglierà le castagne dal fuoco pei borghesi?
«Il popolo ha infranto le catene zariste.
La Russia vive nella tormenta e nel terrore.
Questo, in Svizzera, lesse Lenin,
tremando d'emozione, sui giornali.
Ma cosa si può apprendere
sopra i fogli sgualciti dei giornali?
Ah, lanciarsi in aereo nel cielo,
là, in aiuto agli operai insorti!
Invece, obbediente al volere del Partito,
Lenin viaggiò nel vagone tedesco sigillato.
Oh, se allora gli Hohenzollern
avessero saputo che Lenin
era una bomba anche per la loro monarchia!
I pietrogradesi in gioia
si baciano e saltano come bambini,
mai poiché sfilano in parata e col nastrino rosso
già la Prospettiva Nevskij ribolle di generali.
Passo passo arriveranno anche al fischietto di polizia.
Già cominciano a mostrare le unghiette
i borghesi dalle zampe pelose.
Da principio come cuccioli in giuoco,
poi sempre più feroci: Miljukov dei Dardanelli
e l'incoronazione del fratellino Michele...
Il "premier" non è che un ricamo a punto piatto.
Non si tratta del rozzo Commissario del Popolo,
ma di una ragazza civetta che si fa guardare,
canta con voce sottile e s'infioretta d'isterismi...
Di queste libertà di febbraio
non abbiamo ancor vista la rugiada
che già i difensori della patria
ci mostrano le verghe:
«Marcia, marcia verso il fronte, popolo lavoratore!
E a complemento del glorioso paesaggio,
che ci ha traditi sia prima che dopo,
come guardiani, si dispongono intorno
i social-rivoluzionari, quelli di Savinkov
e i menscevichi, gatti sapienti.
Quando d'un tratto, dietro la Neva,
dalla stazione di Finlandia,
attraverso il quartiere di Vyborg,
sulla città che già nuota in un velo di ghiaccio
rombò un treno blindato
e di nuovo
il gelido vento impetuoso
sollevò le schiumose onde
della rivoluzione.
Camicie e berretti invasero la via Liteiny:
«Lenin è con noi, viva Lenin!»
«Compagni!» e sopra le teste degli operai
protese la mano come a indicare una meta:
«Sbarazziamoci della socialdemocrazia,
buttiamo fuori questi stracci ammuffiti
Abbasso il potere dei conciliatori
e dei capitalisti! Noi siamo la voce profonda
della base popolare, la voce profonda
degli operai di tutta la terra.
Viva il Partito che costruisce il Comunismo!
Viva l'insurrezione per il potere dei Soviet!»
Per la prima volta, davanti alla folla stupita,
qui presso te, è balzata
come una cosa semplice, che si può fare,
l'inaccessibile parola «Socialismo».
Proprio di qui, dalle urlanti officine,
illuminando il giro dell'orizzonte,
è apparsa la futura Comune dei lavoratori,
senza borghesi né proletari, senza schiavi e padroni.
Sul groviglio delle ritorte funi
dei conciliatori, le parole di Lenin
furono colpi d'ascia. Il suo discorso
suscitò improvvise grida: «È giusto,
Lenin! Era ora!»
Il palazzo della Kshesinskaja,
regalatole perché agitava le gambe,
è ora una tuta operaia. Qui dilaga
la moltitudine delle officine
a temprarsi nella fucina di Lenin.
«Mangia pure ananassi, mastica pure pernici,
il tuo ultimo giorno sta venendo, o borghese!
Già c'insinuiamo tra chi siede nei posti padronali:
«Cosa mangiate? Come vivete?»
E per provare, nel luglio,
gli tastiamo la gola e il pancino.
I denti dei borghesi di colpo si fecero aguzzi:
«Lo schiavo s'è ribellato, bàttilo a sangue!»
E puntano l'arma di Kerenskij su Lenin.
Ancora una volta il Partito
si ritirò nell'illegalità. Il'itch è a Rasliv,
nella Finlandia,
ma non una soffitta, né un campo, né una capanna
tradirono Lenin a quella banda di vipere!
Lenin non appare ma è vicino.
Da come il lavoro procede
si vede la mente direttiva di Lenin,
la mano di Lenin che guida.
Le parole di Lenin cadono in buona terra,
danno rapidi frutti:
già spalla a spalla con gli operai
stanno milioni di spalle contadine.
11.
E quando alle barricate si giunse,
scegliendo un giorno nella serie dei giorni,
Lenin stesso apparve a Pietrogrado:
«Basta, compagni. Troppo a lungo soffrimmo.
Il giogo del capitale, il mostro della fame,
i banditi delle guerre, i ladri interventisti
ci sembreranno più bianchi dei néi
sul corpo rugoso di nonna storia antica.
Basta».
E guardando di laggiù queste giornate,
vedrai dapprima la testa di Lenin:
il suo pensiero apre una strada di luce
dall'éra degli schiavi
ai secoli della Comune.
Passeranno gli anni dei nostri tormenti
e ancora, all'estate della Comune,
scalderemo la nostra vita
e la felicità, con dolcezza di frutti giganti,
maturerà sui fiori dell'ottobre.
E chi leggerà le parole di Lenin,
sfogliando le carte gialle dei decreti,
sentirà il sangue battere alle tempie
e salire le lacrime dal cuore.
Quando rivedo ciò che ho vissuto
e scavo in quei giorni,
chiaro il ricordo mi balena:
fu il 25, il primo giorno.
Con le baionette s'infigge il lampo,
i marinai giuocano a palla con le bombe,
nel fragore sussulta Palazzo Smol'ny
e fra nastri di cartucce
crepitano dall'atrio i mitraglieri.
«Compagni, vi chiama il compagno Stalin.
destra, la terza stanza».
Egli è là:
«Compagni, presto, sulle autoblinde!
Occupate la Posta Centrale!»
«Sì», risponde un marinaio
e scompare, e sotto la lampada, sul suo berretto,
è brillato un nome, "Aurora".
Chi si lancia con un ordine
nella mischia,
chi scatta col caricatore sul ginocchio...
E qui, venendo senza rumore,
dal corridoio passò inosservato Lenin.
I soldati che Il'itch aveva guidati alla lotta,
non conoscendolo ancora dai ritratti,
accanto a lui si urtavano con grida,
con bestemmie più taglienti dei rasoi.
E in questa bufera di ferro agognata,
Lenin, assorto, camminava,
si fermava, aggrottava le ciglia,
interveniva, con le mani dietro la schiena.
Su qualche ragazzo arruffato,
con fasce alle gambe,
fissava l'occhio che batte senza sbagliare
ed era come se il cuore
si struggesse di sotto alle parole,
come se l'anima svelasse
di sotto l'intrico delle frasi.
Ed io sapevo che tutto era chiarito,
era capito, sapevo che l'occhio di Lenin
coglieva il grido del contadino
e gli urli del fronte,
la volontà delle officine Nobel,
la volontà delle officine Pulitov.
Egli girava nella memoria centinaia di province,
abbracciava un miliardo e mezzo di uomini.
Egli soppesava il mondo nel corso della notte.
E la mattina:
«A tutti, a tutti, a tutti.
A tutti i fronti rossi di sangue,
a tutti gli schiavi sotto il pugno dei ricchi.
Il potere ai Soviet.
La terra ai contadini.
La pace ai popoli.
Il pane agli affamati».
Questi messaggi lessero i borghesi
e gridarono: «Aspettate,
vi metteremo a posto. Vi faremo sparire la pancia
con argomenti persuasivi».
E chiamano Duchonin e Kornilov,
chiamano Gutchkov e Kerenskij.
Ma i messaggi di Lenin
conquistarono il fronte senza combattere.
Campagne e città inondarono i decreti:
anche gli analfabeti ne ebbero il cuore bruciato.
Sappiamo che loro, non noi,
provarono ciò che poi è accaduto.
Dagli uni agli altri passarono quelle parole,
dai vicini ai lontani, a tutti infiammarono i cuori:
«Pace alle capanne, guerra ai palazzi».
Si batterono in ogni officina,
sollevando la polvere nelle città
e dietro il passo di ottobre
arse il falò delle ville nobiliari.
La terra, lettiera sotto la frusta dei padroni,
il contadino la prese, come pagnotta dal sacco,
con tutti i suoi ruscelli e le colline,
la seminò cantando e lavorò.
Gli aristocratici, inamidati e occhialuti,
sputando rabbia,
si trascinavano in fuga
là dove ancora hanno qualche valore
i titoli di conte o di barone.
Buon viaggio!
Noi,
anche ad ogni cuoca
insegneremo a dirigere lo stato.
12.
Al lavoro delle rotative era legata la nostra vita.
Sul fronte volava alle orecchie tedesche
l'invito: «È ora di smetterla,
venite a fraternizzare!»
Il fronte si dissolveva
con le lumache dei carri-bestiame:
tanta falla di disertori
non si può chiudere col palmo della mano!
Sembrò ad un tratto che la nostra barchetta sbandasse
e che lo speronato stivale di Guglielmo,
più potente di quello zarista,
dovesse cancellare i confini del nostro potere.
A mantelli sbottonati, vennero i social-rivoluzionari
e coi loro verbali virtuosismi
accalappiarono i disertori
e li spinsero a cavallo con sciabole di latta
contro i prodigi corazzati.
Allora Lenin, in faccia a questi petulanti galletti
gridò: «Il nostro Partito
prenderà su di sé anche l'odiosa tregua di Brest.
Perdiamo spazio, ma guadagnamo tempo.
Ma perché questa tregua non ci strangoli,
perché il tedesco comprenda chi è il suo avversario,
perché non si scordi dei nostri colpi,
con disciplina libera e cosciente,
entrate a far parte dell'Armata Rossa».
Gli storici tireran fuori i manifesti con l'idra zarista
e avranno dei dubbi,
ma noi conoscemmo quell'idra
in grandezza naturale.
«Andremo alla guerra per il potere dei Soviet
e moriremo da eroi in questa giusta battaglia!»
Arriva Denikin, e respingono Denikin.
E appena le pietre dei focolari distrutti sono raccolte
arriva Wranghel in cambio di Denikin,
ma anche il barone ruzzola lontano.
Arriva Koltchak ...
«Ci ridurremo a masticare scorze,
di notte, in riva agli stagni!»
Ma si andava all'assalto
come milioni di stelle rosse
e in ognuna di esse palpitava Lenin
e di ognuno di noi egli prendeva pena
su di un fronte d'undicimila verste.
Un fronte sconfinato da percorrere in ogni senso,
ogni casa da attaccare perché nasconde un nemico
dietro la porta!
Social-rivoluzionari e monarchici spiano insonni,
mordono come serpenti
o diffondono ipotesi avventate.
Conosci tu la strada
che porta all'officina Michelson?
La troverai bagnata dal sangue di Lenin.
I social-rivoluzionari tuttavia
non mirano troppo giusto e la palla rimbalza,
colpisce la loro fronte...
Ma più tragico delle bombe e dei revolver
è l'assedio feroce della fame,
l'assedio del tifo. Guardate:
ronzano le mosche sui detriti.
Le mosche stavano meglio di noi
nel millenovecentodiciotto.
Per mezz'etto di pane
quante giornate nel gelo delle strade!
Se volete, seminate e pascolate.
Chi non darebbe un'officina
in cambio di patate?
Il cantiere navale composto di dieci reparti
ansimava e fischiava
per produrre accendisigari,
ma i "kulak" hanno cavoli e burro.
I loro calcoli sono semplici:
nascondere il grano e negli otri
le monete di Nicola e di Kerenskij.
Noi lo sappiamo: la fame fa piazza pulita.
Qui occorrono tanaglie e non molle cera.
E così Lenin
si leva ancora in battaglia contro i "kulak"
con le brigate di prelevamento.
Forse che in tempi simili a questi
la parola «democrazia»
può inebriare stoltamente qualche testa?
Se è necessario si deve battere l'avversario
finché resti una macchia sul selciato.
La chiave della vittoria, oggi, sta
nella dittatura di ferro.
13.
Abbiamo vinto ma siamo in falla.
La macchina s'è fermata, il rivestimento va in pezzi,
Ondate di rottami, brandelli di tappezzeria.
Su, dunque! Andate e ripulite!
Ma il porto dov'è?
I fari son rotti.
Sbandiamo, battezzando la cresta dei flutti
con gli alberi della nave.
Il peso di milioni di contadini
ci fa piegare sul fianco destro.
I nemici s'inebbriano con urla d'entusiasmo,
ma quello che accadde solo Lenin sapeva
e poteva fare.
Egli, di venti gradi,
girò di colpo la ruota del timone
e subito nacque un improvviso silenzio
che lasciò tutti stupiti
Ed ecco
i contadini portare pane nel porto,
ecco le insegne normali «Compra e vendita»:
N.E.P.
Lenin aggrottò la fronte: «Per ora
dobbiamo rimediare ai guasti,
adoperare l'"arstchin" e far di conto.
Se non riesci peggio per te».
In terraferma barcollava lo stanco equipaggio:
noi eravamo abituati al clima delle tempeste...
Che inganno dunque può essere questo?
Nessun inganno. Lenin segnala un golfo profondo
e il punto d'approdo è trovato:
il colosso delle Repubbliche Sovietiche
entra maestoso nella pace,
nei "docks" dell'edificazione
e Lenin stesso porta ferro e legname
per riparare le falle.
Come lastre d'acciaio
si levano e riparano i negozi,
le cooperative e i consorzi.
Poi Lenin ritorna ancora pilota.
Risplendono sui bordi le luci, a poppa e a prua.
Adesso dagli arrembaggi e dagli attacchi
passeremo all'assedio del lavoro.
Abbiamo retrocesso con un calcolo esatto
e qualcuno s'è perso sulla riva
dietro l'uragano, ma adesso avanti!
La ritirata è finita:
Partito Comunista, equipaggio a bordo!
La Comune non avrà fine.
Cosa sono per essa dieci anni? Avanti!
Scompare nel passato il trafficante della N.E.P.:
«Noi ci muoveremo cento volte più adagio,
ma un milione di volte più sicuri e più saldi».
Dietro i piccoli borghesi
s'agita ancora un mare morto.
ma le immobili nubi mandano lampi
e segnano l'addensarsi della minaccia mondiale.
Il nuovo nemico si sostituisce al nemico caduto.
Ma basta! Incendieremo i cieli sul mondo,
ma quanto a ciò è più utile agire
che mettersi a fare discorsi.
Adesso, intanto, se mangiamo o beviamo,
se dopo il pasto
ritorniamo all'officina comune,
portiamo sempre con noi una suprema certezza:
il proletariato è al potere e Lenin
ha organizzato la nostra vittoria.
Dal Komintern alle sonanti copeche
con la falce e il martello impressi nel nuovo metallo,
ogni cosa ci parla dell'epopea leninista,
dei suoi passi sicuri di vittoria in vittoria.
Enormi pesi sono le rivoluzioni,
da solo non le sopporti, ti rompono le gambe.
Ma Lenin, fra gli uguali, era il primo
per forza di volontà e alle leve dell'intelligenza.
Insorgono i paesi un dopo l'altro: la mano di Lenin
aveva indicato la giusta strada. I popoli
bianchi e i popoli di colore
vengono all'ombra della bandiera del Komintern.
Le solide colonne, i pilastri dell'imperialismo,
i borghesi dei cinque continenti,
salutano con garbo,
levandosi i cilindri e le corone reali
la Repubblica Sovietica di Lenin.
Nessuna fatica ci fa paura.
Noi lanciamo in avanti la locomotiva del lavoro...
Ma ecco, di colpo,
ecco di colpo,
la notizia pesante una tonnellata:
"la morte di Lenin".
14.
Se in un museo si esponesse
un bolscevico che piange,
quel museo tutto il giorno
sarebbe pieno di gente curiosa,
ma uno spettacolo simile
non accadrà di vedere nei secoli.
I caporioni bianchi
ci timbravano a fuoco sulla schiena
la stella a cinque punte;
ci hanno interrati sino alla testa
le bande selvagge di Mamontov;
vivi ci hanno bruciati nei forni
delle locomotive i giapponesi:
di stagno e di piombo
riempivano le nostre bocche: «Rinnegate la vostra fede»,
ci urlavano. Ma dalle gole bruciate
uscivano soltanto tre parole:
«Viva il comunismo!»
Poltrona dopo poltrona, fila dietro fila,
il 22 gennaio,
i bolscevichi, uomini d'acciaio
e di ferro,
entrarono nel palazzo a cinque piani
del Congresso dei Soviet.
Sedettero scambiandosi un sorriso.
Lì decidevano senza indugi
sui problemi del giorno. Ecco,
è ora d'incominciare.
Ma perché si ritarda? Perché
il "Presidium" si è diradato
come un bosco
dov'è stata abbattuta una pianta?
Perché gli occhi sono più rossi
del velluto del palco? Perché
Kalinin si mostra malsicuro?
Qualcosa è accaduto.
Ah, no! Come è possibile questo?
Il soffitto s'abbassò su di noi come un corvo.
Si chinarono le teste, si chinarono ancora.
Tremando divennero buie
le luci dei lampadari; s'incantò
l'inutile suono del campanello.
Poi Kalinin si alzò,
si riprese, ma non riuscì a inghiottire le lacrime
che solcavano le sue guance;
e le lacrime lo tradirono brillandogli nella barba.
Si confondono i pensieri e il sangue batte alle tempie:
«Ieri, alle sei e cinquanta minuti,
è morto il compagno Lenin».
Ciò che ha visto quest'anno
cent'anni insieme
non riusciranno a vedere.
Il giorno entrerà nella dolente memoria
dei secoli. Lo sgomento strappò un gemito al ferro:
tra i bolscevichi passò il singhiozzo
della cupa oppressione e dalle viscere li sconvolse.
Come e quando Lenin si spense?
Sulle strade e sui vicoli
navigava il Grande Teatro
simile a un catafalco.
La gioia si ritira come una lumaca.
Follemente corre il dolore. Né sole né ghiaccio,
soltanto neve nera,
nera neve che penetra ogni cosa
attraverso la carta dei giornali.
La notizia colpì l'operaio al tornio
come una fucilata;
come un bicchiere rovesciato di colpo sulla macchina
furono le sue lacrime.
E i contadini
che cento volte la morte
avevano fissato negli occhi,
si vergognavano del pianto davanti alle donne
ma li tradiva l'impronta
della mano terrosa sulla guancia.
Vi furono uomini di pietra,
uomini che a sangue si morsero le labbra.
Come vecchi si fecero seri i bambini
e come bambini piansero i vecchi
dalle barbe d'argento.
Il vento
singhiozzò sulla terra insonne,
sulla terra inquieta
che non sapeva darsi ragione
di come le fredde spoglie,
nella fredda sala di Mosca,
fossero le spoglie mortali
del padre e figlio della rivoluzione.
Morte. Morte. Morte.
Come convincersi? Un vetro
e sotto vedete...
È lui che portano dalla stazione
per la città ch'egli strappò ai signori.
La strada è come un'aperta ferita
tanto dolore è in essa e tanto geme.
Qui ogni pietra conosce Lenin
fin dai primi furiosi assalti
dell'ottobre. Qui tutto ciò
di cui le bandiere son simbolo
è stato pensato da Lenin. Qui ogni torre
ha udito la sua voce
e con lui sarebbe balzata nel fuoco. Qui
tutti gli operai conoscono Lenin:
a lui offrirono i cuori come rami di sempreverdi
gettati sulla via.
Egli guidava alla lotta prevedendo la vittoria,
egli portò i proletari al potere.
Qui il contadino
scrisse il nome di Lenin nel suo cuore
con più venerazione
che per i santi del proprio paese,
perché Lenin
comandò di chiamare nostra la terra,
la terra che gli avi fustigati
sognano ancora nella tomba.
Sembrò che i comunardi, sotto la Piazza Rossa,
mormorassero: «Fratello, amato e gentile,
oh, vivi! Ventura più grande non è necessaria,
e noi combatteremo ancora,
cento volte ancora andremo all'assalto
e torneremo nelle nostre tombe».
Ah, ora,
ora dovrebbero qui risuonare
le parole del taumaturgo
e noi morire e lui ridestarsi!
Ecco, così: si fendono in mezzo le strade
e gli uomini cantando
si precipitano alla morte.
Ma non esistono i prodigi
ed è vano sognarli.
Ecco Lenin,
ecco la bara sulle spalle curvate.
Egli era un uomo umano per ogni vena.
Portate la bara e struggetevi d'angoscia,
uomini! Un peso come questo gli oceani
non l'hanno ancora portato nei secoli,
come questa bara rossa
che naviga sulle schiene
dei singhiozzi e delle funebri marce,
verso la Casa dei Sindacati.
Ancora una volta s'irrigidisce nel tributo d'onore
la severa pattuglia
della guardia leninista,
ma aspetta la folla, immobile aspetta
lungo la via Tverskaja,
lungo la via Dimitrovka.
Nel diciassette, alla fila del pane,
a malincuore andavano le ragazze,
nonostante la fame,
ma a questa fredda spaventosa fila
tutti sono venuti,
coi bambini e con gli ammalati.
La campagna s'è fusa alla città,
insieme s'è allineata
e il dolore risuona ora virile
ed ora con la voce dell'infanzia.
La terra del lavoro sfila in parata,
vivo bilancio della vita di Lenin.
Sorge il sole di lacca gialla
e colpisce d'obliqui raggi la terra!
Come inchiodati, piangendo la loro speranza,
piegati dal dolore,
passano i cinesi
Vagano le notti
sull'onda dei giorni,
mutando le ore,
confondendo le date,
come se notte non vi fosse,
né stelle nel suo buio,
ma solo le lacrime
dei negri che piangono Lenin
negli Stati Uniti.
Il freddo morde i piedi alle suole
ma gli uomini passano i giorni accalcati.
Han persino timore
di scaldarsi battendo le mani,
il timore di fare una cosa inopportuna.
Il freddo afferra e trascina,
scruta negli uomini
quanto temprati essi sian nell'amore.
S'insinua nella folla,
in essa si confonde,
con essa avanza nella Sala delle Colonne.
I gradini si alzano quasi ostacoli, scogli.
Con il canto si spegne il respiro.
È uno strazio nel cuore andare avanti.
Ora i gradini diventano un baratro
un abisso di vertigini al piede.
Quattro gradini: un abisso dalle generazioni schiave
cui solo era nota
la sonante ragione dell'oro.
La bara di Lenin segna il distacco.
E più oltre l'orizzonte della Comune.
Cosa vedi?
Solo la sua fronte...
e dietro, nel buio, Nadegida Konstantinovna.
Può darsi che ad occhi asciutti,
può darsi che senza lacrime
si possa veder meglio,
ma io ho visto con questi occhi.
Le palpitanti bandiere
s'abbassano per l'estremo saluto:
«Addio, compagno,
tu hai compiuto con onore
il tuo valoroso, generoso cammino.»
Un terrore mi prende. No, non voglio guardare.
Come se camminassi
sui fili del telegrafo, mi muovo;
come se per un attimo
fossi solo, sommerso in questa unica verità.
Ma ecco, io mi sollevo. Ecco,
l'acqua della risonante marcia
trasporta il mio corpo senza peso. Io so,
oggi per sempre,
io so che è in me questo momento.
Sono felice d'essere una molecola
di questa vivente forza
dove anche il pianto è comune.
Non è possibile partecipare
con più vitale purezza
al sentimento della classe operaia.
Ancora, le bandiere
abbassano le ali per sollevarsi alla lotta
più forti, verso il domani. «Noi stessi, fratello,
abbiamo chiuso i tuoi occhi d'aquila».
Non si cade se si sta spalla a spalla.
Col lutto sulle bandiere,
con le palpebre rosse,
s'accompagnava così Il'itch all'estremo saluto,
indugiando presso il Mausoleo.
La cerimonia si svolge, si pronunciano i discorsi
e il tempo è breve, non contiene tanto dolore.
Chi mai può coglierne la grandezza?
Passano gli uomini guardando in alto
il nero quadrante coperto di neve:
come scattano impazzite
le lancette sulla torre Spasskaja.
Ogni minuto è uno scatto
fulmineo.
O vita, o movimento,
fermatevi! E voi che alzate il martello,
restate di rigido gelo. O terra,
muori, còricati e giaci!
Qui è silenzio. Il più grande dei cammini è compiuto.
Mille cannoni tuonarono, ma questa salve
non sembrò più forte
del soldo tintinnante nella tasca del povero.
Dilatando sino al dolore
la mia debole vista,
rimango intirizzito e senza respiro.
Davanti a me sta, nitido, nel riflesso delle bandiere,
l'immobile nero globo terrestre,
e sul globo, sul mondo,
una bara immobile e muta.
E accanto alla bara,
noi, rappresentanti degli uomini,
per moltiplicare con la tempesta delle insurrezioni,
con le opere e la poesia
ciò che oggi abbiamo veduto.
15.
Ma ecco, da lontano, la luce rossa.
Nell'aria di gelo,
verso di noi attenti e silenziosi,
una voce si levò: «Marciate al passo».
Ma quest'ordine non era necessario.
Sciogliendo con fatica il peso del corpo,
respirando più forte,
insieme e più rapidi,
segnammo il passo dalla piazza in avanti.
Ora, con mano ferma, alzino sulle teste le bandiere.
Calpestio tempestoso dei piedi.
Questa forza, ah, sì! questa forza,
dilatandosi in cerchi,
si comunicherà al pensiero del mondo.
Ma un pensiero comune
è intanto nel cuore,
nella mente dei contadini,
degli operai e dei soldati:
«Sarà più duro, per la Repubblica,
vivere senza Lenin, la sua guida».
Chi prenderà il suo posto?
Come sostituire la sua forza?
Basta, dormire sul letto di piume!
«Compagno segretario,
ecco, a te:
chiediamo l'iscrizione alla cellula X,
subito ed in maniera collettiva,
di tutta l'officina... »
I borghesi ci guardano stupiti,
dilatando gli occhietti, sussultando
allo scroscio del passo potente.
Quattrocentomila, generosi, ardenti,
venuti dalle officine:
ecco la prima corona di partito
offerta al compagno Lenin.
«Compagno segretario,
prendi la penna... Ho sentito
che occorre sostituire... che bisogna...
Io sono vecchio, ma c'è mio nipote,
si farà onore: iscrivilo nel "Komsomol".»
Flotta rossa, leva le ancore!
È tempo che le talpe sottomarine
prendano il largo:
«Sul mare sul mare:
oggi siam qui, domani siam là».
Brilla più alto, sole!
Tu sarai testimonio.
Sciogli il silenzio
delle bocche chiuse nel lutto.
I bambini s'agguantano
alle gambe dei grandi:
«Un, due, tre:
noi siamo i pionieri,
contro i fascisti andiamo di corsa all'assalto».
Il pugno alzato dell'Europa ci provoca invano.
Indietro,
non osare!
La morte di Lenin
è diventata il primo
degli organizzatori comunisti.
Riunendo in un'asta
l'immane selva delle ciminiere,
i milioni di braccia,
la Piazza Rossa si solleva in alto
con la rossa bandiera,
con un balzo che scuote tutto il cielo.
E da questa bandiera,
da ogni sua piega,
ecco, di nuovo vivo, Lenin ci chiama:
«Proletari, serrate le file
per l'ultimo scontro.
E voi, schiavi, rialzate le schiene e i ginocchi.
Armata proletaria, sorgi e avanza!
Allegra e veloce, viva la nostra Rivoluzione!»
Tra tutte le guerre
che han devastato il corso della storia,
questa è l'unica grande giusta guerra.
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Note:
1. Questo poema è stato composto tra l'aprile e l'ottobre del 1924.
Carlos Augusto León
Carlos Augusto León era un eminente scrittore, saggista, insegnante, politico e notevole poeta venezuelano, nato nel 1914 e scomparso nel 1997.
Nella seconda metà della sua vita Augusto Leon si occupò di scrivere poesie e di esprimersi apertamente in politica, in particolare in difesa della gente comune e dei gruppi sociali svantaggiati. Durante la dittatura del generale Marcos Pérez Jiménez fu incarcerato e poi esiliato per lungo tempo. Approfittò del periodo in esilio per portare il suo messaggio politico e la sua parola poetica in molti paesi dell'America Latina ed europei. Nel 1953 si recò in Russia dove gli fu assegnato il Premio del Consiglio Mondiale per la Pace. Successivamente ritornò in Venezuela e ricoprì incarichi politici di rilievo, come membro del consiglio comunale di Caracas e poi senatore al Congresso Nazionale.
Carlos Augusto León ha espresso nella sua poesia un grande senso umanista, in messaggio sociale, sempre in difesa del popolo e delle donne, che lo ha reso un esponente della poesia con impegno sociale in America Latina. Nel 1943 gli fu assegnato il Premio Comunale di Letteratura, nel 1946 il Premio Comunale di Prosa, assegnato al suo saggio Le Pietre Magiche, e nel 1948 il Premio Nazionale di Poesia, assegnato alla sua raccolta di poesie A Solas con la Vida.
Io canto Lenin (stralcio)
1
Canto di Lenin quando gli altri si contorcono
e dicono: questo non è più il grande popolo di Lenin,
ha cambiato strada.
No, Lenin: so che sei più che mai nel tuo popolo.
Odio chi insulta la tua famiglia di popoli,
coloro che cercano di coprirla con un mantello di menzogne.
Ma non è una novità, te lo ricordi?
Se tu fossi per loro solo
il grande capitano dei "banditi",
tutto il tuo popolo era un'"orda"...
Così abbaiavano,
così abbaiano ora, ancora
il loro abbaiare continua
2
Ma tutto è passato, compagno,
come hai detto tu.
Prima è cresciuto da solo,
circondato ovunque e spostato.
ma ferma nella sua crescita,
freccia sicura
al bersaglio,
l'albero del vostro popolo,
libero e unito,
dei russi, dei tadzik, dei turkmeni...
Ma poi
sorsero nuovi alberi, un'intera foresta,
da Pechino a Praga,
dalla Mongolia alla Bulgaria...
È tutto finito, compagno,
come hai detto tu.
E gli altri, quelli contro cui hai combattuto,
sono andati dritti verso la morte
come hai detto tu.
Continuano ad abbaiare, a maltrattare, a saccheggiare,
perché vanno dritti verso la morte,
come hai detto tu.
E tutti i popoli della terra
sempre più eretti e svegli,
si scrollano di dosso i gioghi
di un impero o di un altro perché sanno
che c'è già un Paese, un mondo, con loro.
potente, fraterno.
Perché è successo tutto, compagno,
come dicevi tu.
3
Ti conosco ormai da una vita, Lenin,
ho camminato alla tua ombra... E a mio figlio ho dato il tuo nome.
Ho dato il tuo nome a mio figlio.
Sono cresciuto con te, Maestro, Compagno.
Ho l'età della Rivoluzione.
Sono sempre stato così vicino
che, pur non avendoti mai visto, potevo ben dirti
com'era il tuo sorriso, com'eri tu
il tuo sguardo vivace, il tuo essere inquieto.
So che eri
un fiume che diventa torrente.
So che eri
dolce come un ruscello, ma forte
come la tempesta.
E ciò che ammiro di più in te, Maestro
quanto la tua limpida intelligenza:
Eri un albero che sa essere un orecchio:
Come hai lavorato tra i tuoi,
uno tra tutti, come hai ascoltato
al mujik e al soldato; tu sapevi
Che gli occhi di molti, uniti, vedono più lontano,
che le braccia di tutti, unite, sono più forti.
Sono cresciuto con te, in mezzo all'infamia
che infesta il nostro mondo. Mi ricordo:
quando ero bambino mi mostravano a malapena
i bambini affamati della vostra terra
e mi dicevano: ecco quello che i bolscevichi stanno perpetrando
i bolscevichi stanno perpetrando laggiù.
Non dicevano che la fame era un fiume in piena.
-un fiume di sete dai palazzi dello zar e del suo popolo.
dello zar e del suo popolo... Mi hanno fatto vedere
immagini di contadini coraggiosi
uccisi dalle "guardie bianche"
dicendomi: questo è ciò che i comunisti
laggiù i comunisti...
Non cambiano, compagno Lenin,
il nemico non cambia.
Il vostro Paese è cresciuto, ma loro
affermano che i vostri muri sono di fame
la vostra terra è pulita e limpida, ma loro
-coloro che si nutrono del sangue popolare
le loro armi e le loro macchine
vogliono farci vedere che è solo ombra.
Non cambiano, compagno Lenin,
il nostro nemico di sempre.
A Budapest ha assassinato i patrioti
e ci ha mostrato le loro vittime dicendo
questo hanno fatto
laggiù i comunisti...
Non cambiano, compagno Lenin.
La vita che conduco combattendo e cantando
e il tempo stesso
che la vostra Rivoluzione ha di vita,
hanno preparato Kolchak e Denikin per attaccare di nuovo...
e Denikin per attaccare di nuovo... Invano, invano!
si indeboliscono ogni giorno di più
- con le bombe, sì, con le bombe, sì, con le armi a volontà
e mucchi di dollari -
e ogni giorno più forti
io e voi, i popoli della terra.
Non si correggono, non cambiano mai,
-sono gli stessi lupi!
per nulla si convincono di dover cedere il passo a coloro che oggi
a noi che oggi dobbiamo costruire la storia.
Una volta hanno attaccato... Era Hitler, già polvere nella memoria,
crimine nella memoria, non più, del mondo.
E non molto tempo fa volevano che tornasse:
le sue ceneri
andarono a risvegliarsi e i suoi soldati
lanciati contro l'Ungheria...
Ma questo non era tuo, compagno.
Il tuo popolo - i tuoi fratelli, i tuoi figli e le tue figlie
della patria sovietica -
al fianco dei veri ungheresi
hanno di nuovo respinto il mostro,
hanno liberato l'uomo.
Carlos Augusto León era un eminente scrittore, saggista, insegnante, politico e notevole poeta venezuelano, nato nel 1914 e scomparso nel 1997.
Nella seconda metà della sua vita Augusto Leon si occupò di scrivere poesie e di esprimersi apertamente in politica, in particolare in difesa della gente comune e dei gruppi sociali svantaggiati. Durante la dittatura del generale Marcos Pérez Jiménez fu incarcerato e poi esiliato per lungo tempo. Approfittò del periodo in esilio per portare il suo messaggio politico e la sua parola poetica in molti paesi dell'America Latina ed europei. Nel 1953 si recò in Russia dove gli fu assegnato il Premio del Consiglio Mondiale per la Pace. Successivamente ritornò in Venezuela e ricoprì incarichi politici di rilievo, come membro del consiglio comunale di Caracas e poi senatore al Congresso Nazionale.
Carlos Augusto León ha espresso nella sua poesia un grande senso umanista, in messaggio sociale, sempre in difesa del popolo e delle donne, che lo ha reso un esponente della poesia con impegno sociale in America Latina. Nel 1943 gli fu assegnato il Premio Comunale di Letteratura, nel 1946 il Premio Comunale di Prosa, assegnato al suo saggio Le Pietre Magiche, e nel 1948 il Premio Nazionale di Poesia, assegnato alla sua raccolta di poesie A Solas con la Vida.
Io canto Lenin (stralcio)
1
Canto di Lenin quando gli altri si contorcono
e dicono: questo non è più il grande popolo di Lenin,
ha cambiato strada.
No, Lenin: so che sei più che mai nel tuo popolo.
Odio chi insulta la tua famiglia di popoli,
coloro che cercano di coprirla con un mantello di menzogne.
Ma non è una novità, te lo ricordi?
Se tu fossi per loro solo
il grande capitano dei "banditi",
tutto il tuo popolo era un'"orda"...
Così abbaiavano,
così abbaiano ora, ancora
il loro abbaiare continua
2
Ma tutto è passato, compagno,
come hai detto tu.
Prima è cresciuto da solo,
circondato ovunque e spostato.
ma ferma nella sua crescita,
freccia sicura
al bersaglio,
l'albero del vostro popolo,
libero e unito,
dei russi, dei tadzik, dei turkmeni...
Ma poi
sorsero nuovi alberi, un'intera foresta,
da Pechino a Praga,
dalla Mongolia alla Bulgaria...
È tutto finito, compagno,
come hai detto tu.
E gli altri, quelli contro cui hai combattuto,
sono andati dritti verso la morte
come hai detto tu.
Continuano ad abbaiare, a maltrattare, a saccheggiare,
perché vanno dritti verso la morte,
come hai detto tu.
E tutti i popoli della terra
sempre più eretti e svegli,
si scrollano di dosso i gioghi
di un impero o di un altro perché sanno
che c'è già un Paese, un mondo, con loro.
potente, fraterno.
Perché è successo tutto, compagno,
come dicevi tu.
3
Ti conosco ormai da una vita, Lenin,
ho camminato alla tua ombra... E a mio figlio ho dato il tuo nome.
Ho dato il tuo nome a mio figlio.
Sono cresciuto con te, Maestro, Compagno.
Ho l'età della Rivoluzione.
Sono sempre stato così vicino
che, pur non avendoti mai visto, potevo ben dirti
com'era il tuo sorriso, com'eri tu
il tuo sguardo vivace, il tuo essere inquieto.
So che eri
un fiume che diventa torrente.
So che eri
dolce come un ruscello, ma forte
come la tempesta.
E ciò che ammiro di più in te, Maestro
quanto la tua limpida intelligenza:
Eri un albero che sa essere un orecchio:
Come hai lavorato tra i tuoi,
uno tra tutti, come hai ascoltato
al mujik e al soldato; tu sapevi
Che gli occhi di molti, uniti, vedono più lontano,
che le braccia di tutti, unite, sono più forti.
Sono cresciuto con te, in mezzo all'infamia
che infesta il nostro mondo. Mi ricordo:
quando ero bambino mi mostravano a malapena
i bambini affamati della vostra terra
e mi dicevano: ecco quello che i bolscevichi stanno perpetrando
i bolscevichi stanno perpetrando laggiù.
Non dicevano che la fame era un fiume in piena.
-un fiume di sete dai palazzi dello zar e del suo popolo.
dello zar e del suo popolo... Mi hanno fatto vedere
immagini di contadini coraggiosi
uccisi dalle "guardie bianche"
dicendomi: questo è ciò che i comunisti
laggiù i comunisti...
Non cambiano, compagno Lenin,
il nemico non cambia.
Il vostro Paese è cresciuto, ma loro
affermano che i vostri muri sono di fame
la vostra terra è pulita e limpida, ma loro
-coloro che si nutrono del sangue popolare
le loro armi e le loro macchine
vogliono farci vedere che è solo ombra.
Non cambiano, compagno Lenin,
il nostro nemico di sempre.
A Budapest ha assassinato i patrioti
e ci ha mostrato le loro vittime dicendo
questo hanno fatto
laggiù i comunisti...
Non cambiano, compagno Lenin.
La vita che conduco combattendo e cantando
e il tempo stesso
che la vostra Rivoluzione ha di vita,
hanno preparato Kolchak e Denikin per attaccare di nuovo...
e Denikin per attaccare di nuovo... Invano, invano!
si indeboliscono ogni giorno di più
- con le bombe, sì, con le bombe, sì, con le armi a volontà
e mucchi di dollari -
e ogni giorno più forti
io e voi, i popoli della terra.
Non si correggono, non cambiano mai,
-sono gli stessi lupi!
per nulla si convincono di dover cedere il passo a coloro che oggi
a noi che oggi dobbiamo costruire la storia.
Una volta hanno attaccato... Era Hitler, già polvere nella memoria,
crimine nella memoria, non più, del mondo.
E non molto tempo fa volevano che tornasse:
le sue ceneri
andarono a risvegliarsi e i suoi soldati
lanciati contro l'Ungheria...
Ma questo non era tuo, compagno.
Il tuo popolo - i tuoi fratelli, i tuoi figli e le tue figlie
della patria sovietica -
al fianco dei veri ungheresi
hanno di nuovo respinto il mostro,
hanno liberato l'uomo.
Vicente Huidobro
Vicente Huidobro, nacque il 10 gennaio 1893 a Santiago del Cile ed è a oggi considerato uno dei maggior poeti cileni, affiancato ai grandi nomi Pablo Neruda, Pablo de Rokha e Gabriela Mistral.
Nato in una famiglia piuttosto agiata e in cui la madre era una fervente femminista, Huidobro si rivelò uno scrittore precocissimo, pubblicando le sue prime poesie a partire dal 1911, appena maggiorenne. Dopo il successo in patria, viaggia molto: si reca a Buenos Aires, per poi imbarcarsi alla volta di Madrid e Parigi.
Proprio in Europa Vincente porta a compimento il periodo della sua formazione, entrando in contatto con le avanguardie artistiche (incontra Picasso, Miró, Paul Éluardm ma anche Ramón Gómez de la Serna e Tristan Tzara), collaborando con numerose riviste e pubblicando le sue prime opere principali, che superano gli esordi modernisti per dare corso a una nuova corrente, di cui lui stesso si era nominato fautore: il creazionismo. Fin dalla raccolta El espejo de agua (Argentina, 1914), Huidobro considera la poesia come atto di creazione assoluta.
Nel 1921 fonda a Madrid la rivista Creación, Revista Internacional de Arte, in cui esprime le sue teorie poetiche e ospita dipinti di Braque, Picasso e Gris. Tiene conferenze e viaggi in tutta Europa (Italia compresa), si dedica a mostre di sue poesie dipinte.
Nel 1932 torna in Cile, dove si avvicina al partito comunista, si occupa di critica cinematografica, ma entra anche in un’accesa e duratura rivalità con Neruda. Nel 1936 parte alla volta della Spagna per partecipare alla guerra civile e ritornerà anni dopo in Europa per seguire, come corrispondente, la liberazione di Parigi e Berlino. Una volta in patria, muore colpito da un ictus il 2 gennaio 1948, a soli 55 anni, a testimonianza di una vita dedicata in modo intenso e instancabile alla cultura e alla creatività.
Elegia sulla morte di Lenin
Più del canto della vita
Più della morte stessa
Più del dolore della memoria
Più dell'angoscia del tempo
È la tua presenza nell'anima del mondo
Tu, uomo del bel tempo
Il tuo cuore di fuochi dominati
Entrando nella tomba
Eri come un sole all'improvviso in inverno
Eri come un'estate nella morte
Con te la morte diventa più grande della vita
I secoli si ritirano davanti alla tua tomba
Giungle e fiumi vengono in pellegrinaggio
E i paesi si inginocchiano
Le città sfilano come bandiere e come palchi
I villaggi più lontani bruciano le corone
Il sole distribuisce fiori sulle strade per la tua festa
Qual è la festa dell'uomo
Le onde si sovrappongono per arrivare prime
Per portarvi i saluti dalle sue remote regioni
Il rumore dei mari
Si confonde con il canto della folla
La tua morte crea un nuovo anniversario
Più grande dell'anniversario di una montagna
hai vinto, hai vinto
Una data così profonda non è stata scolpita dagli uomini
Hai aperto le porte della nuova era
La tua altezza aumenta
Come un colpo di cannone che spacca in due la storia umana
Un uomo è passato attraverso la terra
E ha lasciato la terra calda per molti secoli
Con te la morte diventa più grande della vita
Tu sei la nobiltà dell'uomo
In te inizia un nuovo lignaggio universale
E proprio come la tua vita era quella della vita
La tua morte sarà la morte della morte
Un uomo ha abbattuto le montagne
Alla fine dei secoli si sentono i passi di milioni di schiavi
Si allontanano nel tempo e gli echi del tempo passano da un'eco all'altra
Non c’è più distanza da una tribù all’altra
La tua voce di seme che portano i venerabili venti
La tua voce Lenin cambia la razza umana
E fa di tante terre ostili una sola terra
Sei la forma dei secoli a venire
Tu sei il sogno del futuro
Il ruggito dell'odio si trasformò in un canto d'amore
Obbedire agli impulsi della terra
Hai gridato alle coscienze che non sentivano il grande ritmo
La vostra chiarezza non permette che vi siano dissidenti
Ombre che cadono dall'uomo e vengono lasciate morire sulle strade
Un uomo è passato attraverso la terra
e ha lasciato il suo cuore ardente tra gli uomini
Sei l'immagine dei secoli a venire
E questa è la voce del seminatore
E gli uomini alzano i martelli
E i martelli restano sospesi in aria
Alzano le falci e le falci restano alla luce
Tutti sentono, tutti sentono
Quel battito del tuo cuore oltre la morte
quel battito del tuo cuore che ritorna a noi e ti rende presente
Si potrebbe dire dalla morte
Stelle metto in moto gli uomini
Sei il rumore di un'alba che sorge
Sei il rumore di tutto un mondo che funziona, di tutto un mondo che canta
Sei il rumore di una stella vittoriosa che viaggia nello spazio
Che lingua è quella che colpisce gli scogli della riva?
Che respiro è quello che ondeggia gli infiniti campi di grano?
Quali sono le parole che illuminano la notte?
E quel battito del tuo cuore oltre la morte
Abbiamo raccolto le tue parole
Perché tutto sia umano e vero
Per fare dell'uomo un uomo
E quando la tua voce sarà risuonata in tutto il mondo
Quelli tristi, i servi, gli iloti
Scompariranno nelle tane profonde
E gli uomini usciranno su tutte le strade
Che lingua è quella che uccide la fame e disseta?
Quali parole sono quelle che vestono di calore?
Le catene saltano e con esse salta l'uomo
Morirono gli ultimi schiavi, gli ultimi mendicanti
Che avevano nelle mani tese tutte le distanze della terra
E senti quel battito del tuo cuore oltre la morte
L'uomo che fa gemere l'incudine
L'uomo che fa piangere la pietra
L'uomo che getta nei solchi i semi chiusi
L'uomo che costruisce una casa
L'uomo che costruisce ponti
E chi ascolta il canto degli uccelli
E chi conta le stelle seduto nel cuore della notte
L'uomo che costruisce strumenti e macchine
L'uomo che cambia il modo delle cose
E le forme della terra
L'uomo che impasta il pane e ha negli occhi l'odore del lievito
L'uomo che guida le mandrie di montagna in montagna
L'uomo che guida le carovane nei deserti più profondi
più a lungo della tua memoria
tutti sentono
Quel battito del tuo cuore oltre la morte
L'uomo che pensa di cantare
All'uomo solitario piace il rintocco di uno
Le folle che muoiono lentamente
Tutti sentono tutto, sentono il tuo cuore oltre la morte
Il tuo cuore risuona nella tomba
Con te la morte diventa più grande della vita
I secoli si ritirano davanti alla tua tomba
Giungle e fiumi vengono in pellegrinaggio
E i paesi si inginocchiano
Da oggi il nostro dovere è difendervi dall'essere dio.
Vicente Huidobro, nacque il 10 gennaio 1893 a Santiago del Cile ed è a oggi considerato uno dei maggior poeti cileni, affiancato ai grandi nomi Pablo Neruda, Pablo de Rokha e Gabriela Mistral.
Nato in una famiglia piuttosto agiata e in cui la madre era una fervente femminista, Huidobro si rivelò uno scrittore precocissimo, pubblicando le sue prime poesie a partire dal 1911, appena maggiorenne. Dopo il successo in patria, viaggia molto: si reca a Buenos Aires, per poi imbarcarsi alla volta di Madrid e Parigi.
Proprio in Europa Vincente porta a compimento il periodo della sua formazione, entrando in contatto con le avanguardie artistiche (incontra Picasso, Miró, Paul Éluardm ma anche Ramón Gómez de la Serna e Tristan Tzara), collaborando con numerose riviste e pubblicando le sue prime opere principali, che superano gli esordi modernisti per dare corso a una nuova corrente, di cui lui stesso si era nominato fautore: il creazionismo. Fin dalla raccolta El espejo de agua (Argentina, 1914), Huidobro considera la poesia come atto di creazione assoluta.
Nel 1921 fonda a Madrid la rivista Creación, Revista Internacional de Arte, in cui esprime le sue teorie poetiche e ospita dipinti di Braque, Picasso e Gris. Tiene conferenze e viaggi in tutta Europa (Italia compresa), si dedica a mostre di sue poesie dipinte.
Nel 1932 torna in Cile, dove si avvicina al partito comunista, si occupa di critica cinematografica, ma entra anche in un’accesa e duratura rivalità con Neruda. Nel 1936 parte alla volta della Spagna per partecipare alla guerra civile e ritornerà anni dopo in Europa per seguire, come corrispondente, la liberazione di Parigi e Berlino. Una volta in patria, muore colpito da un ictus il 2 gennaio 1948, a soli 55 anni, a testimonianza di una vita dedicata in modo intenso e instancabile alla cultura e alla creatività.
Elegia sulla morte di Lenin
Più del canto della vita
Più della morte stessa
Più del dolore della memoria
Più dell'angoscia del tempo
È la tua presenza nell'anima del mondo
Tu, uomo del bel tempo
Il tuo cuore di fuochi dominati
Entrando nella tomba
Eri come un sole all'improvviso in inverno
Eri come un'estate nella morte
Con te la morte diventa più grande della vita
I secoli si ritirano davanti alla tua tomba
Giungle e fiumi vengono in pellegrinaggio
E i paesi si inginocchiano
Le città sfilano come bandiere e come palchi
I villaggi più lontani bruciano le corone
Il sole distribuisce fiori sulle strade per la tua festa
Qual è la festa dell'uomo
Le onde si sovrappongono per arrivare prime
Per portarvi i saluti dalle sue remote regioni
Il rumore dei mari
Si confonde con il canto della folla
La tua morte crea un nuovo anniversario
Più grande dell'anniversario di una montagna
hai vinto, hai vinto
Una data così profonda non è stata scolpita dagli uomini
Hai aperto le porte della nuova era
La tua altezza aumenta
Come un colpo di cannone che spacca in due la storia umana
Un uomo è passato attraverso la terra
E ha lasciato la terra calda per molti secoli
Con te la morte diventa più grande della vita
Tu sei la nobiltà dell'uomo
In te inizia un nuovo lignaggio universale
E proprio come la tua vita era quella della vita
La tua morte sarà la morte della morte
Un uomo ha abbattuto le montagne
Alla fine dei secoli si sentono i passi di milioni di schiavi
Si allontanano nel tempo e gli echi del tempo passano da un'eco all'altra
Non c’è più distanza da una tribù all’altra
La tua voce di seme che portano i venerabili venti
La tua voce Lenin cambia la razza umana
E fa di tante terre ostili una sola terra
Sei la forma dei secoli a venire
Tu sei il sogno del futuro
Il ruggito dell'odio si trasformò in un canto d'amore
Obbedire agli impulsi della terra
Hai gridato alle coscienze che non sentivano il grande ritmo
La vostra chiarezza non permette che vi siano dissidenti
Ombre che cadono dall'uomo e vengono lasciate morire sulle strade
Un uomo è passato attraverso la terra
e ha lasciato il suo cuore ardente tra gli uomini
Sei l'immagine dei secoli a venire
E questa è la voce del seminatore
E gli uomini alzano i martelli
E i martelli restano sospesi in aria
Alzano le falci e le falci restano alla luce
Tutti sentono, tutti sentono
Quel battito del tuo cuore oltre la morte
quel battito del tuo cuore che ritorna a noi e ti rende presente
Si potrebbe dire dalla morte
Stelle metto in moto gli uomini
Sei il rumore di un'alba che sorge
Sei il rumore di tutto un mondo che funziona, di tutto un mondo che canta
Sei il rumore di una stella vittoriosa che viaggia nello spazio
Che lingua è quella che colpisce gli scogli della riva?
Che respiro è quello che ondeggia gli infiniti campi di grano?
Quali sono le parole che illuminano la notte?
E quel battito del tuo cuore oltre la morte
Abbiamo raccolto le tue parole
Perché tutto sia umano e vero
Per fare dell'uomo un uomo
E quando la tua voce sarà risuonata in tutto il mondo
Quelli tristi, i servi, gli iloti
Scompariranno nelle tane profonde
E gli uomini usciranno su tutte le strade
Che lingua è quella che uccide la fame e disseta?
Quali parole sono quelle che vestono di calore?
Le catene saltano e con esse salta l'uomo
Morirono gli ultimi schiavi, gli ultimi mendicanti
Che avevano nelle mani tese tutte le distanze della terra
E senti quel battito del tuo cuore oltre la morte
L'uomo che fa gemere l'incudine
L'uomo che fa piangere la pietra
L'uomo che getta nei solchi i semi chiusi
L'uomo che costruisce una casa
L'uomo che costruisce ponti
E chi ascolta il canto degli uccelli
E chi conta le stelle seduto nel cuore della notte
L'uomo che costruisce strumenti e macchine
L'uomo che cambia il modo delle cose
E le forme della terra
L'uomo che impasta il pane e ha negli occhi l'odore del lievito
L'uomo che guida le mandrie di montagna in montagna
L'uomo che guida le carovane nei deserti più profondi
più a lungo della tua memoria
tutti sentono
Quel battito del tuo cuore oltre la morte
L'uomo che pensa di cantare
All'uomo solitario piace il rintocco di uno
Le folle che muoiono lentamente
Tutti sentono tutto, sentono il tuo cuore oltre la morte
Il tuo cuore risuona nella tomba
Con te la morte diventa più grande della vita
I secoli si ritirano davanti alla tua tomba
Giungle e fiumi vengono in pellegrinaggio
E i paesi si inginocchiano
Da oggi il nostro dovere è difendervi dall'essere dio.
Langston Hughes
Nato nel 1901, a seguito del divorzio dei genitori fino all'età di 13 anni fu cresciuto dalla nonna, che però era ormai settantenne, successivamente si trasferì quindi a Lincoln, nell'Illinois, per vivere con la madre e il marito di lei, prima che la famiglia si stabilisse a Cleveland. Fu a Lincoln che Hughes iniziò a scrivere poesie.
Il primo libro di poesie di Hughes, The Weary Blues (Knopf, 1926), fu pubblicato da Alfred A. Knopf nel 1926 con un'introduzione del mecenate del Rinascimento di Harlem Carl Van Vechten. Le critiche al libro dell'epoca furono varie: alcuni lodarono l'arrivo di una nuova voce significativa nella poesia, mentre altri respinsero la raccolta d'esordio di Hughes. Tre anni dopo terminò la sua formazione universitaria alla Lincoln University in Pennsylvania. Nel 1930 il suo primo romanzo, Not Without Laughter (Knopf, 1930), vinse la medaglia d'oro Harmon per la letteratura.
Hughes, che ha citato Paul Laurence Dunbar, Carl Sandburg e Walt Whitman come sue principali influenze, è particolarmente noto per i suoi ritratti penetranti della vita dei neri in America dagli anni Venti agli anni Sessanta. Scrisse romanzi, racconti, opere teatrali e poesie, ed è noto anche per il suo impegno nel mondo del jazz e per l'influenza che ebbe sulla sua scrittura, come nel suo libro di poesie Montage of a Dream Deferred (Holt, 1951). La sua vita e il suo lavoro ebbero un'enorme importanza nel plasmare i contributi artistici della Harlem Renaissance degli anni Venti. A differenza di altri importanti poeti neri dell'epoca, come Claude McKay, Jean Toomer e Countee Cullen, Hughes rifiutò di distinguere tra la sua esperienza personale e quella comune dell'America nera. Voleva raccontare le storie della sua gente in modi che riflettessero la loro cultura reale, compreso l'amore per la musica, le risate e la lingua, oltre che la loro sofferenza.
Oltre a lasciarci un'ampia opera poetica, Hughes scrisse undici opere teatrali e innumerevoli opere di prosa, tra cui i noti libri "Simple": Simple's Uncle Sam (Hill and Wang, 1965); Simple Stakes a Claim (Rinehart, 1957); Simple Takes a Wife (Simon & Schuster, 1953); Simple Speaks His Mind (Simon & Schuster, 1950). Ha coeditato con Arna Bontemps il libro The Poetry of the Negro, 1746-1949 (Doubleday & Co., Inc., 1949), ha curato The Book of Negro Folklore (Dodd, Mead & Company, 1958) e ha scritto un'acclamata autobiografia, The Big Sea (Knopf, 1940). Hughes ha anche scritto insieme a Zora Neale Hurston l'opera teatrale Mule Bone (HarperCollins, 1991).
Langston Hughes morì per complicazioni dovute a un cancro alla prostata il 22 maggio 1967 a New York.
Lenin
Lenin gira per il mondo.
Le frontiere non possono impedirglielo.
Né le baracche né le barricate lo impediscono.
Né il filo spinato lo ferisce.
Lenin gira per il mondo.
Nero, marrone e bianco lo ricevono.
La lingua non è una barriera.
Le lingue più strane gli credono.
Lenin gira per il mondo.
Il sole tramonta come una cicatrice.
Tra il buio e l'alba
Sorge una stella rossa.
Ballate di Lenin
Compagno Lenin russo,
In alto in una tomba di marmo,
Spostati, compagno Lenin,
E dammi spazio.
Io sono Ivan, il contadino,
Stivali tutti infangati di terra.
Ho combattuto con te, compagno Lenin.
Ora ho finito la mia fatica.
Compagno Lenin russo,
Vivo in una tomba di marmo,
Spostati, compagno Lenin,
E fammi spazio.
Io sono Chico, il negro,
Taglio della canna al sole.
Ho vissuto per te, compagno Lenin.
Ora il mio lavoro è finito.
Compagno Lenin russo,
Onorato in una tomba di marmo,
Spostati, compagno Lenin,
E lasciami spazio.
Sono Chang delle fonderie
In sciopero nelle strade di Shanghai.
Per il bene della Rivoluzione
Combatto, muoio di fame, muoio.
Il compagno Lenin russo
Parla dalla tomba di marmo:
In guardia con gli operai per sempre -
Il mondo è la nostra stanza!
Nato nel 1901, a seguito del divorzio dei genitori fino all'età di 13 anni fu cresciuto dalla nonna, che però era ormai settantenne, successivamente si trasferì quindi a Lincoln, nell'Illinois, per vivere con la madre e il marito di lei, prima che la famiglia si stabilisse a Cleveland. Fu a Lincoln che Hughes iniziò a scrivere poesie.
Il primo libro di poesie di Hughes, The Weary Blues (Knopf, 1926), fu pubblicato da Alfred A. Knopf nel 1926 con un'introduzione del mecenate del Rinascimento di Harlem Carl Van Vechten. Le critiche al libro dell'epoca furono varie: alcuni lodarono l'arrivo di una nuova voce significativa nella poesia, mentre altri respinsero la raccolta d'esordio di Hughes. Tre anni dopo terminò la sua formazione universitaria alla Lincoln University in Pennsylvania. Nel 1930 il suo primo romanzo, Not Without Laughter (Knopf, 1930), vinse la medaglia d'oro Harmon per la letteratura.
Hughes, che ha citato Paul Laurence Dunbar, Carl Sandburg e Walt Whitman come sue principali influenze, è particolarmente noto per i suoi ritratti penetranti della vita dei neri in America dagli anni Venti agli anni Sessanta. Scrisse romanzi, racconti, opere teatrali e poesie, ed è noto anche per il suo impegno nel mondo del jazz e per l'influenza che ebbe sulla sua scrittura, come nel suo libro di poesie Montage of a Dream Deferred (Holt, 1951). La sua vita e il suo lavoro ebbero un'enorme importanza nel plasmare i contributi artistici della Harlem Renaissance degli anni Venti. A differenza di altri importanti poeti neri dell'epoca, come Claude McKay, Jean Toomer e Countee Cullen, Hughes rifiutò di distinguere tra la sua esperienza personale e quella comune dell'America nera. Voleva raccontare le storie della sua gente in modi che riflettessero la loro cultura reale, compreso l'amore per la musica, le risate e la lingua, oltre che la loro sofferenza.
Oltre a lasciarci un'ampia opera poetica, Hughes scrisse undici opere teatrali e innumerevoli opere di prosa, tra cui i noti libri "Simple": Simple's Uncle Sam (Hill and Wang, 1965); Simple Stakes a Claim (Rinehart, 1957); Simple Takes a Wife (Simon & Schuster, 1953); Simple Speaks His Mind (Simon & Schuster, 1950). Ha coeditato con Arna Bontemps il libro The Poetry of the Negro, 1746-1949 (Doubleday & Co., Inc., 1949), ha curato The Book of Negro Folklore (Dodd, Mead & Company, 1958) e ha scritto un'acclamata autobiografia, The Big Sea (Knopf, 1940). Hughes ha anche scritto insieme a Zora Neale Hurston l'opera teatrale Mule Bone (HarperCollins, 1991).
Langston Hughes morì per complicazioni dovute a un cancro alla prostata il 22 maggio 1967 a New York.
Lenin
Lenin gira per il mondo.
Le frontiere non possono impedirglielo.
Né le baracche né le barricate lo impediscono.
Né il filo spinato lo ferisce.
Lenin gira per il mondo.
Nero, marrone e bianco lo ricevono.
La lingua non è una barriera.
Le lingue più strane gli credono.
Lenin gira per il mondo.
Il sole tramonta come una cicatrice.
Tra il buio e l'alba
Sorge una stella rossa.
Ballate di Lenin
Compagno Lenin russo,
In alto in una tomba di marmo,
Spostati, compagno Lenin,
E dammi spazio.
Io sono Ivan, il contadino,
Stivali tutti infangati di terra.
Ho combattuto con te, compagno Lenin.
Ora ho finito la mia fatica.
Compagno Lenin russo,
Vivo in una tomba di marmo,
Spostati, compagno Lenin,
E fammi spazio.
Io sono Chico, il negro,
Taglio della canna al sole.
Ho vissuto per te, compagno Lenin.
Ora il mio lavoro è finito.
Compagno Lenin russo,
Onorato in una tomba di marmo,
Spostati, compagno Lenin,
E lasciami spazio.
Sono Chang delle fonderie
In sciopero nelle strade di Shanghai.
Per il bene della Rivoluzione
Combatto, muoio di fame, muoio.
Il compagno Lenin russo
Parla dalla tomba di marmo:
In guardia con gli operai per sempre -
Il mondo è la nostra stanza!
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il 21 gennaio 2024, centesimo anniversario della morte di V. I. Lenin,
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